Già dal nome della serie appare chiaro che non vedremo una storia con spie infallibili, panorami mozzafiato e macchine inarrivabili, ma, al contrario, ronzini o, per dirla in inglese, slow horses appunto. Confinati nella Slough House, il Pantano, una sede periferica che niente ha in comune con l’eleganza e il potere della sede centrale dei servizi segreti inglesi, i nostri agenti traccheggiano, condannati a passare le giornate tra archiviazioni e compiti altrettanto tediosi, invisi ai colleghi e guardati dall’alto in basso perfino dalla security del Park. I ronzini possiedono tutti i caratteri della repellenza: dipendenze, cinismo, mancanza di empatia, rabbia. Qualità, per così dire, che esprime al meglio il loro capo, Jackson Lamb (Gary Oldman), disilluso veterano dei servizi segreti.
In questa terza stagione (se non avete visto le prime due potete recuperarle senza estenuanti maratone perché si tratta di 6 episodi l’una) il Pantano viene attaccato frontalmente: una dei membri della ciurma, l’anziana impiegata Catherine Standish (Saskia Reeves), viene rapita da un gruppo che, almeno all’inizio, sembra avere intenzione di ucciderla. In realtà il rapimento della donna e la conseguente richiesta di rubare un dossier sul primo ministro conservato nell’archivio della sede dell’MI5, si riveleranno nient’altro che una montatura ordita dal ministro dell’interno per testare le capacità dei servizi segreti e, una volta colti in fallo, avere la possibilità di riformarli utilizzando la costosa consulenza di una società di sicurezza privata di cui è socio. In gergo si tratta di un tiger team e in teoria nessuno dovrebbe farsi male: terminato il test, Standish dovrebbe essere liberata, a qualche dirigente tirate le orecchie e tutto tornare come prima. Come potete immaginare le cose non vanno lisce: Standish non viene liberata e si innesca una vera e propria escalation che porta tutti i membri della squadra di Lamb a rischiare la vita.
Anche questa terza stagione, come e forse più delle precedenti, ha ottenuto un ampio consenso di pubblico e critica.
Vorrei soffermarmi in particolare su due qualità del prodotto Apple: la visibilità e la scrittura. Certo potremmo indicarne altre, come ad esempio le performance del cast o l’accuratezza della fotografia, ma questi elementi mi sembrano maggiormente significativi perché indicativi di cosa intendiamo quando parliamo di una serie di qualità. Possiamo discutere se Slow Horses meriti tre o quattro pallini (noi abbiamo scelto la via mediana!) oppure se sia la migliore produzione Apple o debba cedere lo scettro ad altre (Severance/Scissione? Ted Lasso?), ma certamente non è in discussione il fatto che sia un prodotto di qualità assoluta. Non è un caso che Gary Oldman voglia concludere la sua carriera con il ruolo di Jackson Lamb!
La visibilità del resto è una conquista tutt’altro che banale. Si dà per scontata, ma non è così e nel panorama odierno è difficile trovare una serie che non abbia almeno un episodio di troppo. Slow Horses raggiunge l’obiettivo della perfezione dei tempi narrativi, grazie ad un prodotto compatto (sei episodi) che nella sua essenzialità non permette allo spettatore di perdersi un minuto di visione. Immergersi nella Londra di queste dissociate spie è un viaggio visivo che avvolge e risucchia lo spettatore. Al termine della visione, il desiderio di andare avanti è sempre intenso, nonostante le stagioni presentino una conclusione definita, a differenza dalla maggior parte delle produzioni televisive di questi anni: là dove l’interesse solitamente viene procrastinato con cliffhanger pindarici e ipertrofici, qui invece è legato al desiderio di sentire un’altra storia, di vivere un’altra avventura.
Non è una mancanza a mantenere vivo l’interesse dello spettatore, ma il desiderio di un altrove da abitare nuovamente. Certo con il proseguire delle stagioni si crea un legame emotivo tra spettatore e personaggi e le anticipazioni alla fine dell’ultimo episodio rappresentano un ponte anche emotivo, ma non sono questi elementi ad essere determinanti, lo è piuttosto la permanenza in un mondo narrativo esaustivo e delimitato, proprio come il giardino di una villetta della campagna anglosassone. Questa stagione presenta poi una sua specifica visibilità rispetto alle altre: c’è più azione, a cominciare dall’incipit a Istanbul che strizza l’occhio, con discrezione, alle produzioni di 007. Un cambiamento da ricondurre al nuovo regista, Saul Metzstein, con una lunga carriera nel cinema e nella tv alle spalle, in particolare come collaboratore di Tomas Alfredson (L’uomo di neve, La Talpa).
Una visibilità così immersiva presuppone la presenza della seconda eccellenza e cioè una scrittura all’altezza della situazione. La trama sviluppa in modo ottimale le suggestioni dei romanzi di Mick Herron, basandosi sul libro Real Tigers, ma il valore aggiunto sono i dialoghi che da soli valgono, per così dire, il prezzo del biglietto. Caustici, irriverenti, sempre arguti e mai scontati rappresentano una ventata di freschezza che non si vedeva dai tempi di Killing Eve e Fleabag (leggi: Phoebe Waller-Bridge), ma rispetto a quel genere di scrittura hanno una ruvidezza e una matericità diversa. Parlano insomma una lingua più quotidiana, soprattutto nei dialoghi tra gli agenti. Will Smith (Veep) ha curato con maestria la sceneggiatura di una produzione che è andata migliorando nel corso delle stagioni, raggiungendo con questa terza tappa il suo vertice.
Antieroi che non si amano e non si fanno amare. Anche quando fanno la cosa giusta, la fanno sempre nel modo sbagliato o con i tempi sbagliati. Ci sarebbe da discutere sulla mancanza di figure paterne, ma anche quelle materne appaiono inadeguate e il potere gestito dalle donne non sembra poi molto diverso da quello gestito dagli uomini. Il matriarcato sembra fallire, proprio come il patriarcato, modulandone e riproducendone simboli e stilemi (la bottiglia di whisky nella battaglia verbale finale tra la “prima” e la “seconda scrivania” dell’MI5 ne è un esempio straordinario). I temi sono peraltro sempre di grande attualità: se la prima stagione poneva al centro del racconto i movimenti nazionalisti e il pericolo politico e sociale dell’estremismo e la seconda rispolverava il nemico per eccellenza e cioè la Russia (in concomitanza con la crisi Ucraina), ora al centro dell’attenzione c’è piuttosto il pericolo che viene dall’interno, dalla corruzione e dalla violenza che trova nella politica un terreno fertile per crescere e minacciare la società. Il senso di inadeguatezza e di autoreferenzialità dei politici attuali ci appare del resto sempre più evidente, a tutte le latitudini.
La serie è stata rinnovata non solo per la quarta, ma anche per la quinta stagione. Una buona notizia: non resta che preparare il divano per ospitare Jackson Lamb e i suoi ronzini … sperando che prima si facciano una doccia!
DURATA MEDIA DEGLI EPISODI: 42 minuti
NUMERO DEGLI EPISODI: 6
DISTRIBUZIONE STREAMING: Apple TV+
GENERE: Spy Drama
CONSIGLIATO: a quanti amano i dialoghi taglienti e sagaci tanto quanto l’azione e i doppiogiochisti. In questa stagione non manca proprio niente.
SCONSIGLIATO: a quanti cercano una storia tutta azione e adrenalina: la componente action è presente in misura superiore rispetto al passato, ma non è preponderante.
VISIONI PARALLELE: due proposte, il bel film La Talpa (con un Gary Oldman in gran forma) e il documentario tratto dall’autobiografia di un grande autore di spy story come John Le Carrè, Tiro al piccione, sempre disponibile su Apple Tv.
Un’immagine: naturalmente lui, Jackson Lamb: un uomo che nell’abbigliamento e nel modo di comportarsi esprime al meglio la disillusione che avvolge tutto il mondo narrativo della serie e che in questa stagione trova la sua massima espansione, arrivando a coinvolgere non solo gli aspetti lavorativi, ma anche e soprattutto quelli privati (Cartright disilluso dal nonno o Standish vs. il suo vecchio capo Charles Partner). La sua non è una disillusione passiva: quando serve si trasforma in azione, con l’obiettivo di ripristinare lo status-quo: stravolgerlo sarebbe inutile e Lamb non intende perdere tempo ed energia a combattere contro i mulini a vento. Meglio dedicarsi ad un gelato, ma di quelli grassi e ipercalorici!


