Oxford, anno 2006. La voce di un giovane studente, Oliver Quick, racconta il suo incontro con Felix Catton, rampollo di una delle famiglie più antiche del Paese: lui è arrivato nel tempio della cultura inglese con una borsa di studio, è bassino, ordinario, invisibile, l’altro invece assomiglia ad un dio greco, ricchissimo, conteso e amato da tutte le ragazze del campus e non solo da loro.
La foratura della gomma di una bicicletta avvicinerà Oliver a Felix, che lo prende sotto la sua ala e dopo aver saputo della morte improvvisa e tragicomica del padre, alcolizzato e tossicodipendente come la madre, lo invita per l’estate nella sua celebre tenuta di famiglia, Saltburn.
Qui in un maniero dalle molte stanze con i ritratti di Enrico VIII in cui il tempo non essere mai passato, Oliver conosce la famiglia di Felix, la sorella anoressica Venetia, il cugino Farleigh, cha appartiene ad un ramo decaduto, i genitori Sir James e Lady Elsbeth, il loro eccentrico maggiordomo Duncan, la loro ospite di lungo corso Pamela.
Il piccolo gruppo trascorre le lunghe giornate estive nella noia più completa, fra formalismi antichi, rituali familiari e feste elegantissime e scatenate, in un trionfo di ipocrisia e comportamenti passivo-aggressivi.
Nel frattempo Oliver, un passo alla volta, comincia un’opera di sottile seduzione e manipolazione di tutti i componenti di quel piccolo sestetto familiare.
Quella che appare all’inizio come un’intervista, che contrappunta le svolte narrative della storia di Oliver a Saltburn, si rivela infine una sorta di confessione in letto di morte.
Emerald Fennell, che ha davvero frequentato Oxford da studentessa, prima di intraprendere la carriera di attrice (Anna Karenina, Pan, The Danish Girl, The Crown) e quindi di sceneggiatrice, sostituendo Phoebe Waller Bridge come showrunner di Killing Eve e debuttando alla regia con il dirompente e provocatorio Una donna promettente, che l’ha portata sino all’Oscar e ai BAFTA, qui sembra voler recuperare atmosfere e ricordi personali, mescolandoli in modo un po’ maldestro al Pasolini di Teorema e alla radicalità di Parasite.
Se il film del 1968 con Terence Stamp è diventato nel corso degli anni un testo seminale, imitatissimo e ripreso continuamente, anche in modo inconsapevole, quello coreano è assurto a sua volta a simbolo antiborghese, capace di costruire attorno alle fragilità familiari, la sua feroce critica sociale.
Fennell immerge i suoi personaggi in quella che appare all’inizio come una sorta di favola moderna, con il ragazzo dalle umili origini invitato a corte a condividerne gli agi e gli ozi, ma pian piano il racconto idilliaco, immerso nella luce crepuscolare, calda e crepitante di Linus Sandgren, mostra le sue ombre più cupe. La festa di compleanno di Oliver diventa un baccanale notturno virato al rosso e poi al nero, ma è solo il preludio ad una serie di morti che il film sfrutta per costruire il suo allucinato finale.
Fennell vorrebbe così sconvolgere lo spettatore, prima costringendolo a vedere i Catton attraverso lo sguardo ossessivo e desiderante di Oliver, continuamente intento a spiare, origliare, carpire parole e gesti, per poi mostrare quanto quello sguardo fosse assai meno innocente e candido di quanto immaginato.
Nel suo film non mancano scene inutilmente grottesche fino al limite del ridicolo, come quella in cui Oliver lecca e succhia l’acqua del bagno in cui Felix si è lavato e masturbato o come quella nel prefinale in cui si denuda al cimitero, ma queste appunto non provocano alcuno scandalo, apparendo semplicemente gratuite.
Rispetto al capolavoro di Pasolini anche il sesso è vissuto in modo del tutto antitetico, anestetizzato diremmo, non come elemento perturbante e disgregante: le scene di Oliver con Farleigh e Venetia non spostano nulla e non hanno alcuna conseguenza, come la tensione sessuale con Felix, su cui il film si regge in modo francamente ambiguo, come scopriamo alla fine. Lo stesso rapporto proibito con Lady Elsbeth rimane sempre fuori campo. Anche qui Fennell non sembra particolarmente coraggiosa, anzi piuttosto pruriginosa.
A Saltburn mancano soprattutto la dimensione metafisica e poetica di Pasolini così come l’ironia paradossale di Bong, che nelle sue architetture visive, esplicita un disegno non solo criminale, ma più vasto.
Derivativo, manipolatorio e piuttosto superficiale, il film di Fennell si giova soprattutto dell’interpretazione dei suoi protagonisti, in particolare Jacob Elordi, che sembra rimettere i panni del suo Nate di Euphoria, e il disturbante Barry Keoghan che da Il sacrificio del cervo sacro in avanti ha sovente interpretato personaggi ambigui non solo moralmente, ma anche dal punto di vista sessuale.
Tuttavia anche in questo caso, come nella scelta dei genitori Richard E.Grant e Rosamund Pike, le decisioni della Fennell appaiono piuttosto scontate, prevedibili, confermando il pregiudizio che già abbiamo su quegli attori, per i ruoli interpretati in passato.
Come spesso accade alle opere seconde, Saltburn è un passo falso, minato da ambizioni fuori controllo e da idee ancora piuttosto velleitarie.
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