Venezia 2023. The Beast

The Beast – La bête ***

Ritorna il cinema febbrile, irrisolto, perturbante di Bertrand Bonello, che dopo il glam di Saint Laurent (2014), l’epocale Nocturama (2016), l’oscuro Zombie Child (2019) e il notevole Coma (2022), questa volta decide di ripartire da La bestia nella giungla di Henry James, regalandoci uno dei film più complessi e teorici del concorso di Venezia 80, un incontro di solitudini che non riesce mai a diventare amore, attraverso tre diverse incarnazioni in due secoli.

Chi è infatti Gabrielle Monnier ?

Innanzitutto una pianista talentuosa che vive nella Parigi del 1910, infelicemente sposata ad un produttore di bambole e segretamente innamorata del nobile Louis.

Poi un’aspirante attrice nella Los Angeles del 2014, che cerca di farcela tra pubblicità in green screen e casting, facendo la custode per 1.000 dollari al mese di una grande villa, mentre l’incel Louis Lewanski la prende di mira per una vendetta contro l’odiato genere femminile.

Infine una delle tante useless people che non hanno più un lavoro come accade al 67% della popolazione americana nel 2044 e che attraversano città vuote con una maschera d’ossigeno, guidate da una Intelligenza Artificiale di cui nessuno conosce fino in fondo i poteri. A lei viene proposta una procedura di ripulitura del DNA, che potrebbe anestetizzare per sempre i suoi sentimenti e le sue emozioni.

Giocando con la messa in scena di sè, l’interpretazione dei propri ricordi e delle vite passate e perdute, Bonello sembra fare un passo oltre Holy Motors e Se mi lasci ti cancello, costruendo una storia d’amore assoluta, in cui paure e desideri si fondono in un unico destino, in cui ogni declinazione possibile della storia di Louis e Gabrielle rimane disperatamente infelice.

Uno, nessuno e centomila.

E in questo continuo ripetersi dell’identico il cinema ha un ruolo essenziale, con quel green screen che apre il film e in cui tutto è possibile, persino un salto temporale all’inizio del Novecento. Nello spazio ideale del cinema ogni storia può vivere legittimamente, ogni genere può trovare accoglienza, la fantascienza distopica, il thriller, come il film in costume.

Lea Sydoux giganteggia, dominando il film con ogni strumento possibile, vero corpo cinematografico d’attrazione di una storia che le ruota attorno e ne fa il volto simbolico di ogni possibile variazione del suo carattere.

Siamo nello spazio della fantasia e dell’incubo. Eppure Bonello fa un discorso profondamente umanista e morale, mantenendo la stratificazione dei piani narrativi e la complessa articolazione del suo lavoro, ma concedendo spazi di melodramma che consentono di comprendere sino in fondo il dolore dei suoi personaggi, come se davvero ci trovassimo in un lavoro dell’ultimo Pirandello.

E lasciando che le domande eterne che il film pone sull’identità, il passato e il destino risuonino accanto a una dimensione esplicitamente sentimentale: l’unico modo per non diventare noi quelle bambole senz’anima di cui il film è punteggiato è fare i conti fino in fondo con le nostre paure e i nostri fallimenti.

Straziante.

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