Il nuovo film di Stefano Sollima dopo la doppia trasferta americana di Soldado e Senza rimorso e la serie ZeroZeroZero tratta Saviano è un ritorno alle atmosfere cupe e crepuscolari della Roma dei suoi esordi, tra nuova e vecchia criminalità, poliziotti “bastardi”, Suburra e superstiti della Banda della Magliana.
Un ragazzino di nome Manuel viene incastrato da un gruppo di carabinieri deviati che vuole usarlo come infiltrato ad una festa nella quale dovrà raccogliere prove contro un politico a cui piacciono i ragazzi, la cocaina e i travestimenti.
Solo che quando si accorge di essere una pedina di un gioco troppo grande, fugge e chiede aiuto ad un vecchio amico del padre: Polniuman, ora cieco, che si fa consegnare il telefonino usato dai carabinieri per tenerlo sotto controllo e lo indirizza da Romeo il Cammello, un altro criminale uscito da poco di galera.
Romeo è stato dentro e ha perso suo figlio per colpa del padre di Manuel, Mario Daytona, che probabilmente si è venduto gli amici alla polizia e che ora è completamente afasico e non più presente a se stesso.
Il gruppo dei carabinieri, guidati dallo spietato Vasco, si mettono sulle tracce di Manuel. Finiscono a casa di Polniuman, che paga con la vita il suo silenzio, poi sequestrano Daytona e infine, collegando i fili del passato, cercano il ragazzo da Romeo.
La caccia all’uomo di conclude alla stazione Tiburtina dove ciascuno incontra il suo destino.
In una Roma che va letteralmente a fuoco, con un incendio che brucia all’orizzonte e la cenere che finisce per seppellire i corpi lasciati sul campo, il film di Sollima è un thriller d’azione di solida fattura, scritto con Stefano Bises, il mago della serialità italiana criminale, che qui tuttavia ppare piuttosto svogliato.
L’ingaggio dell’azione è debolissimo, poco credibile e pasticciato e tutto il film poi soffre di una scrittura piuttosto sciatta e diseguale.
Il panorama è fosco, il passato torna a chiedere il conto per gli errori di un tempo e alla fine l’unica speranza è quella di ricominciare da capo, dopo aver seppellito torti e ragioni.
Sollima costruisce un lungo viaggio notturno in una città periferica, fatta di grandi svincoli autostradali, speculazione edilizia, rifugi per i dimenticati da Dio e dagli uomini, mentre il potere è sempre abusivo e vizioso e la dimensione criminale abbraccia tutti, banditi, poliziotti, colletti bianchi, in una suburra che si richiude su se stessa.
Il regista rifà sempre se stesso, i punti cardinali del suo cinema romano sono chiarissimi e la sua visione pessimista del presente lascia solo un’illusione alla malinconia di un passato da ricordare e ad un futuro pieno d’incognite ma destinato solo a chi lo costruirà da capo.
Melville è sempre all’orizzonte, ma Sollima non è in grado di raggiungere il maestro francese del polar, neppure quando – come in Adagio – cerca di limitare l’azione, immergendo i suoi personaggi in uno spazio narrativo rarefatto, in cui le attese superano le esplosioni, la violenza è secca e molto limitata e il montaggio si fa meno adrenalinico.
Chiusura della trilogia ideale cominciata con ACAB e proseguita con Suburra, Adagio ne è la conclusione più prevedibile, pur con un’aperta timida nel finale ad un orizzonte in cui dopo il fuoco e la cenere, si può ricominciare a coltivare la speranza.
Puro lavoro di genere, si giova indubbiamente della qualità dei suoi interpreti: Adriano Giannini e Valerio Mastandrea, ma soprattutto Toni Servillo nel ruolo del padre sfasato e di un irriconoscibile Pierfrancesco Favino nel ruolo di Romeo, qui all’ennesima funambolica trasformazione del suo repertorio.
L’uscita natalizia è decisamente controintuitiva: la fama di Sollima e del suo trio di attori sarà sufficiente a sostenerne l’ambizione?

