Nella seconda stagione di una delle serie rivelazione degli ultimi anni ritroviamo le giovani adolescenti della squadra femminile di calcio Yellowjackets e il loro allenatore dispersi tra la montagne dell’Ontario dopo un drammatico incidente aereo. L’inverno sembra precludere la possibilità di un funerale e di una degna sepoltura per Jackie, morta assiderata sul finire della prima stagione e così il cadavere della ragazza viene conservato in un capanno dove la sua migliore amica, Shauna, passa gran parte del tempo, per vegliare il corpo senza vita della compagna e perpetuare una forma, seppur immaginaria, di relazione. Una macabra fissazione post-traumatica che con il tempo si manifesta per qualcosa di molto diverso: quello di Shauna per il cadavere di Jackie è un corteggiamento, un approccio al corpo dell’amica spinto da un istinto insopprimibile a perpetuare la vita, a saziare la fame che il gelido inverno e la penuria di carne sta rendendo insopportabile a tutto il gruppo, ma tanto maggiormente a Shauna che è incinta. Sarà una serie di combinazioni a portare allo scoperto questo desiderio e a renderlo condiviso tra tutti i membri del gruppo. Solo l’allenatore, coach Scott, sembra inorridito di fronte al comportamento delle ragazze. Il carattere apparentemente casuale degli accadimenti che impediscono di bruciare il cadavere di Jackie permette al gruppo di suffragare l’idea che sia un’entità superiore, il bosco, la natura, qualcosa di oscuro a spingerle verso la soddisfazione dei propri bisogni, andando al di là dei principi morali di natura sociale. L’idea di dover assecondare i desideri di un’entità superiore si diffonde progressivamente tra tutte le ragazze e, se da un lato le sorregge in questa terribile prova di sopravvivenza, dall’altro ne condiziona la volontà, quasi possedendole e spingendole verso comportamenti sempre più oscuri.
La seconda stagione continua quindi ad esplorare il trauma vissuto dalle Yellowjackets e dal loro allenatore a seguito del disastro aereo. La narrazione presenta due linee temporali, una che ripercorre il trauma passato, raccontando in modo sempre più preciso e drammatico come hanno fatto le ragazze a sopravvivere nel gelido Ontario e un’altra, che descrive il loro presente e le conseguenze che quegli eventi hanno avuto su ciascuna di loro. C’è qualcosa di misterioso e ancestrale che continua a seguire/condizionare le protagoniste; per affrontarla Shauna (Melanie Lynskey), Misty (Christina Ricci), Taissa (Tawny Cypress) e Natalie (Juliette Lewis) si ricongiungono con altre compagne non presenti nella prima stagione, Lottie (Simone Kessell) e Van (Lauren Ambrose).
Siamo di fronte a una delle molteplici storie che raccontano la nostra società, così segnata dal trauma dell’11 Settembre 2001 e dalla pandemia Covid. Anche il punto di vista, prettamente femminile, è in linea con le scelte più diffuse negli ultimi anni. Qui le protagoniste finiscono per creare un matriarcato e quindi l’analisi che possiamo condurre ha una rilevanza di natura sociale e non solo di genere. Alcuni commentatori hanno visto in questa scelta una critica che il femminismo rivolge a sé stesso, alla propria efficacia: in effetti la società a guida femminile che viene raccontata non ha niente di invidiabile: appare divisa in gruppi, conflittuale, incapace di farsi carico delle debolezze dei singoli. E’ solo all’interno dei gruppi in cui si dividono le ragazze o nei rapporti intimi che queste debolezze trovano un sostegno. Troppo poco, proprio come fragile e per molti aspetti in-significante ci appare il contributo che le donne che hanno acquisito posizioni di potere in questi anni sono riuscite a dare alla risoluzione delle disparità di genere. Un esempio su tutti l’India, guidata per anni da Indira Gandhi, ma in cui le donne continuano ad essere drammaticamente oggetto di discriminazione e vittime di violenza. Il fallimento di molte leadership femminili finisce per giustificare e spiegare la presenza di donne borderline nelle serie degli ultimi mesi. Pensiamo ai personaggi interpretati da Christina Ricci: la sig.ra Marilyn in Wednesday e Misty in questa serie: entrambe donne in apparenza docili, fragili e disponibili, ma che poi si dimostrano senza pietà. La rabbia accumulata si diffonde in modo imprevedibile, travalicando ogni sentimento: lo avevamo del resto già visto in Ratched, per fare un altro esempio. In Yellowjackets questo tratto si presenta con due distinti caratteri: Shauna e Misty.
Se il matriarcato, nella sua versione tradizionale, con divisioni e odi incrociati, è poco efficace nella gestione del potere, figuriamoci nell’affrontare una qualche entità ancestrale: è solo nel momento della reunion che qualcosa cambia e che il gruppo sembra poter superare le divisioni. Per un attimo sembra poter curare le ferite di ciascuna e creare una comunità, ma è solo un profumo fugace e illusorio, come vedremo nel drammatico finale.
Sarebbe riduttivo concentrarci solo sugli aspetti di genere perché se la critica femminista ha una sua valenza, è innegabile che vada inserita in una più complessiva visione negativa della natura umana. Anche i personaggi che sembrano poter trasmettere messaggi diversi e portare lo spettatore verso visioni meno pessimistiche, se non della società almeno del singolo, finiscono per deludere e lasciarci con l’amaro in bocca: penso a coach Scott e al giovane Travis. Questo non deve lasciar spazio a letture semplicistiche dei caratteri perché ogni personaggio è portatore di una sua complessità, fatta di luci e di ombre, con comportamenti che possono essere anche eroici, come nel caso di Natalie. Sono però fiochi bagliori in una notte oscura e avvolgente.
Dal punto di vista narrativo la seconda stagione conferma tempi lunghi, con movimenti ampi, concentrici, che approfondiscono quanto visto nella prima, dando maggior spazio alle emozioni che agli accadimenti. O almeno così avviene per le prime otto puntate, perché nel nono episodio, Storytelling, la musica cambia e il climax sfocia in accadimenti rilevanti per il prosieguo della vicenda. Una scelta discutibile perché rischia di perdere spettatori lungo la via e lascia, in quelli che permangono nella visione, un sapore simile a un pranzo gustoso, ma che non sazia. Il rapporto tra costi e benefici non è vantaggioso e il tempo sembra in parte dis-perso. Discorso a parte per alcune scene di violenza estrema che, per quanto l’asticella negli ultimi anni sia stata spostata sempre più in alto, non possono che lasciare interdetti gli spettatori che si pongono domande su quanto sia profonda la nostra esigenza di catarsi rappresentativa e fino a che punto sia lecito spingersi per assecondarla.
Inoltre c’è da dire che, al termine della stagione, dopo circa 20 episodi, non si riesce ancora a intravvedere l’approdo finale della vicenda.
La serie era molto attesa per il grande successo della prima stagione che l’ha resa il principale cavallo di battaglia di Showtime dai tempi dell’uscita di Billions (2016). Un successo sia di pubblico (media di oltre cinque milioni di spettatori tra Tv e streaming) che di critica (sette nomination agli Emmy Awards) che la seconda stagione è riuscita a preservare, soprattutto grazie a un sapiente intervento di promozione mediatico. Del resto gli ingredienti ci sono tutti: estrema esibizione visiva, crudeltà, adrenalina alternata a spunti sociali in grado di intercettare un pubblico colto e attento ai temi di genere, la presenza di protagonisti disturbati e ricchi di lati oscuri, l’elaborazione di un trauma collettivo.
Yellowjackets è un prodotto di qualità, da vedere, ma con la consapevolezza che la strada verso un approdo narrativo è ancora lunga e … piena di violenza.
TITOLO ORIGINALE: Yellowjackets
DURATA MEDIA DEGLI EPISODI: 60 minuti
NUMERO DEGLI EPISODI: 9
DISTRIBUZIONE STREAMING: Paramount+
GENERE: Drama Mistery Horror
CONSIGLIATO: a quanti amano le serie misteriose in cui il sangue è sempre pronto a zampillare e le lacrime delle protagoniste non sono sempre innocenti e spontanee.
SCONSIGLIATO: a quanti non sentono il fascino delle foreste canadesi, odiano il calcio, anche quello femminile e soprattutto non hanno voglia di immergersi in un mondo misterioso e violento, abitato da protagoniste disturbate e borderline.
VISIONI PARALLELE: “Il Signore delle mosche” è dal punto di vista letterario un riferimento calzante per atmosfera, senso opprimente della collettività, visione pessimistica delle relazioni sociali e in generale dell’umanità. Il libro, scritto da William Golding nel 1954, racconta appunto di un disastro aereo che porta alcuni bambini e pre-adolescenti a sopravvivere su di un’isola deserta dove provano ad organizzarsi e a darsi una struttura sociale. Un tentativo che porta con sè drammatiche conseguenze.
UN’IMMAGINE: il simbolo della squadra di calcio femminile delle Yellowjackets è un’ape, il che richiama alla memoria una celebre frase di William Golding: “Gli umani producono il male come le api producono il miele”.

