Selezionato dal Festival di Cannes nell’edizione fantasma del 2020 e poi presentato in anteprima al Sundance a gennaio 2021, il documentario d’animazione del danese Jonas Poher Rasmussen è uscito poi negli Stati Uniti a dicembre, diventando subito uno dei film più premiati e citati della stagione, fino a raccogliere tre nominations agli Oscar, per il miglior film internazionale, il miglior documentario e la migliore animazione.
La sua presenza in tre categorie una volta sostanzialmente incompatibili tra di loro, segnala subito l’eccezionalità del lavoro di Rasmussen, che racconta la storia di un giovane profugo afghano, Amin, attraverso i conflitti e i confini di vent’anni di storia europea.
Per preservare l’identità del suo protagonista, il regista si affida ad un’animazione semplice, essenziale, che raffredda inevitabilmente il portato emotivo del racconto, ma che consente di ricostruire il viaggio doloroso del protagonista, costretto a mentire a tutti e a se stesso per sopravvivere, in un mondo ostile e corrotto.
La guerra dei talebani contro il regime afghano negli anni ’80 come ultima dimostrazione muscolare del conflitto tra USA e URSS, costringe Amin, i suoi fratelli e la loro anziana madre a fuggire verso la Russia post-sovietica, inghiottendo il padre in un destino che non troverà mai una spiegazione.
Nella Mosca post-comunista, con l’inflazione alle stelle, la polizia corrotta e un capitalismo importato nella sue versione più rapace, la famiglia di Amin cerca di comprarsi un viaggio della speranza verso il nord europa, attraverso l’Estonia.
Il fratello più grande di Amin che già vive in Svezia risparmia ogni centesimo per consentire prima alle sue sorelle e poi agli altri di potere acquistare il prezzo carissimo della libertà.
Le due ragazze vengono imbarcate su un cargo commerciale, chiuse come bestie in un container senza possibilità di uscita. Amin, l’altro fratello e la madre tentano la traversata su una barca di fortuna assieme ad altri disperati. Quando incrociano una grande nave da crociera, l’entusiasmo scema in disperazione, perchè il capitano avverte la guardia costiera che li spedisce in un centro temporaneo in Estonia, indegno di una nazione europea e quindi di nuovo in Russia.
Per Amin l’ultimo tentativo è quello di dichiararsi orfano e solo al mondo. Solo che il trafficante di uomini lo manda in Danimarca e non in Svezia, dove dovrà mentire a tutti, per essere accolto come un esule e rifarsi una vita.
Il viaggio del protagonista non è solo un itinerario fisico di spostamenti, fughe, ritorni, ma anche un percorso di costruzione identitaria, in cui l’occultamento della verità è l’unica soluzione possibile.
Così come Amin e la sua famiglia vivono nascosti, per evitare di incappare nei controlli e nei soprusi della polizia russa, così lo stesso protagonista è costretto a lungo, anche in famiglia, ad occultare la sua omosessualità, in una cultura che non ha neppure una parola per definirla.
Tuttavia poichè il racconto di Flee nasce da una lunga confessione raccolta dal regista quando Amin è ormai adulto, affermato e in procinto di comprare una nuova casa in campagna con il suo partner danese, questa dimensione intima non è mai davvero significativa. Persino quando il protagonista riesce a trovare il coraggio di confessarlo ai fratelli, quel conflitto tanto temuto si risolve immediatamente in comprensione. La sua famiglia è ormai pienamente dentro i costumi occidentali e nordeuropei.
Il film di Rasmussen resta una testimonianza coraggiosa della crudeltà che continuiamo a riversare nei confronti di chi ha scelto di cercare il proprio destino lontano dalla propria terra natale. L’avversione verso i movimenti migratori, che hanno segnato la storia non solo europea, ma anche quella del medioriente e del Nuovo Mondo, l’ossessione egoistica per il controllo dei confini e dei flussi, è una costante degli ultimi trent’anni che Flee riesce a rendere con semplicità e immediatezza, partendo da una storia singolare, unica, che però ne contiene molte altre.
L’idea di essere costantemente stranieri, finanche nella propria patria, è una sensazione che ti resta addosso, come il terrore che altri scoprano improvvisamente quella condizione. Il film, attraverso la mediazione dell’animazione e una cornice che esplicita la dimensione cinematografica della confessione di Amin, riesce a trovare un equilibrio drammatico prezioso e la giusta distanza, per ricostruire lo spazio della memoria.
L’animazione disegnata a mano è opera del Sun Creature Studio di Copenaghen è scarna ma efficace. Difficile dimenticare l’incontro tra la barca di fortuna dei profughi e l’enorme nave da crociera, che Rasmussen mostra da entrambi i punti di vista e che come il Rex felliniano rappresenta solo un simulacro di libertà, un sogno che non si avvererà mai.