Il nuovo documentario del premio Oscar Bryan Fogel (Icarus), è dedicato al barbaro omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, collaboratore del Washington Post, probabilmente il più noto e influente corrispondente dal mondo arabo.
Il 2 ottobre 2018 Khashoggi entra verso l’una del pomeriggio nel consolato del suo paese a Istanbul, per ritirare dei documenti necessari al suo imminente matrimonio. Non ne uscirà mai.
La compagna Hatice lo aspetta inutilmente tutta la giornata fino a tarda notte, quando segnala la scomparsa e le autorità locali cominciano le indagini. Tuttavia la scientifica e gli investigatori potranno entrare nel consolato solo il 15 ottobre successivo, quando tutto è stato ripulito.
Si scoprono ugualmente le lunghe tracce di sangue nella sala conferenze, dove verosimilmente qualcuno stava osservando e guidando da lontano quello che accadeva.
Successivamente le autorità turche rendono pubblica un’intercettazione ambientale che racconta gli ultimi tragici minuti di vita di Khashoggi all’interno del consolato, prima di essere sedato, soffocato e fatto a pezzi, da un commando di 15 uomini, arrivati in Turchia su un volo privato dall’Arabia Saudita.
Il corpo viene verosimilmente trasportato alla residenza del console generale, bruciato in una grande brace scavata nel seminterrato e i resti eliminati in un pozzo, presente negli stessi locali.
Il film di Fogel ricostruisce pezzo dopo pezzo, anche grazie all’indagine dei magistrati turchi, la fine tragica di Khashoggi e lo fa attraverso le parole della sua compagna Hatice e di un dissidente esiliato in Canada, Omar Abdulaziz, che collaborava con il giornalista e che porta su di sè il senso di colpa di aver avuto un ruolo, sia pure indiretto, nella terribile eliminazione del giornalista.
Khashoggi, nipote del medico personale del sovrano Abd al-Aziz, fondatore del regno dell’Arabia Saudita nel 1932 e cugino di Dodi Al Fayed, aveva studiato economia aziendale negli Stati Uniti, ad Indiana State a partire dal 1979, ed era sempre stato un giornalista non ostile alla monarchia saudita e alla famiglia reale. Per 30 anni era stato l’insider più influente del regime.
Tuttavia con le primavere arabe e le rivolte in Egitto del 2011, Khashoggi comincia a diventare una voce importante della riforma e quando comprende il ruolo del suo paese nel finanziare i gruppi di potere controrivoluzionario, diventa uno dei critici più assidui di Re Salman Bin Abdulaziz e soprattutto del principe ereditario Mohammad Bin Salman.
Dall’esilio americano, i suoi articoli sul Post e su giornali occidentali lo rendono sempre più inviso alla famiglia reale, fino a metterlo al centro del mirino.
Nel corso dell’ultimo decennio, molti attivisti sono stati ridotti al silenzio. In un paese in cui non esiste libera stampa e non è possibile manifestare un vero dissenso, senza subirne conseguenze, l’80% dei cittadini sauditi si informano grazie a Twitter, che ha preso il posto del dibattito pubblico, ridotto al silenzio.
Qui la storia di Khashoggi si intreccia a quella di Omar Abdulaziz, costretto a fuggire a Montreal per i suoi attacchi sui social e diventato una voce scomoda e pericolosa, per il regime del principe Mohammad Bin Salman, a cui piace mostrarsi come un sovrano illuminato e riformista, ma che sembra esercitare il suo potere senza nessun limite, etico o politico: il documentario racconta di purghe ed eliminazioni persino nella sua cerchia familiare e di una rete di troll, chiamati The Flies, che si occupa di indirizzare la comunicazione social, hacker informatici capaci di sorvegliare e reprimere non solo l’attività dei dissidenti e dei cittadini sauditi, ma probabilmente persino Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo e il proprietario del Washington Post, il giornale con cui Khashoggi collaborava.
E’ la parte più inquietante e oscura del documentario di Fogel: se la vendetta spietata contro i dissidenti e le loro famiglie, gli inganni, le torture più atroci, la pressione psicologica sono strumenti aberranti, ma comuni, nella storia di ogni tirannia, la capacità di manipolare l’opinione pubblica, di ricattare e influenzare realtà lontanissime in paesi liberi, arrivando a spiare i telefoni di uno dei giganti dell’high tech, è invece una novità, che lascia sgomenti e paranoici.
Quella stessa rete, secondo quanto rivelato da Rotten Tomatoes, ha cercato deliberatamente di manipolare anche le reazioni allo stesso The Dissident, in un cortocircuito tra realtà e rappresentazione che continuare a lasciare inquieti.
Il film di Fogel privilegia un ritratto personale di Khashoggi e, nella seconda parte, si concentra sul ruolo di Hatice e di Omar, sulle indagini delle Nazioni Unite, sulla risposta della comunità internazionale all’esecuzione di Khashoggi e sul fallimento provvisorio dei piani del principe saudita di espandere la sua influenza sull’economia mondiale, già fortissima.
Il documentario è un lavoro d’inchiesta, che sfrutta le immagini di repertorio, quelle delle indagini delle autorità turche e le interviste rilasciate da protagonisti di questa storia, con inserti fiction, d’animazione ed effetti speciali, che dovrebbero servire a legare i diversi contributi, ma che tolgono rigore ad un film, che non avrebbe avuto bisogno di altri elementi, oltre alla verità.
Quando scorrono le lunghe didascalie finali, dopo due ore di crescente sconcerto, non si può non ripensare con orrore a certi recenti contributi italiani, volti ad incensare il regime di Riyad, che avrebbero facilmente trovato spazio nel lavoro di Fogel, se non fosse stato chiuso quasi un anno fa.
Presentato al Sundance 2020, è distribuito in Italia da MioCinema dal 12 febbraio 2021.
Non perdetelo.