Primo straordinario successo di Bong Joon Ho, The Host è stato, al momento della sua uscita in sala nel 2006, il più grande incasso di sempre del cinema coreano, con oltre 13 milioni di spettatori.
Dopo un clamoroso debutto alla Quinzaine a Cannes, il film aveva avuto una distribuzione in Inghilterra, negli stati Uniti e in gran parte d’Europa, ma non in Italia dove è arrivato solo in homevideo e su Raimovie nel giugno 2013.
Nel frattempo i Cahiers du Cinéma l’avevano inserito al terzo posto della loro classifica dei migliori film del 2003 e Quentin Tarantino l’aveva indicato tra i migliori venti film usciti dopo il 1992, l’anno in cui lui aveva debuttato con Le iene.
Anche questa volta, come per Memorie di un assassino, Bong costruisce il suo film a partire da un fatto di cronaca: nel 2000 in un ospedale militare americano a Seul, un anatomo-patologo aveva ordinato ad un suo sottoposto coreano di smaltire un enorme quantitativo di formaldeide, riversandolo negli scarichi della base, consapevole che sarebbe finito, attraverso le fogne, direttamente nel fiume Han.
Ne era nato un incidente diplomatico tra i due paesi, soprattutto perchè gli americani ospiti delle basi militari sembravano del tutto indifferenti degli effetti delle loro attività sull’ambiente e sulle comunità locali.
Il film cominicia così in un obitorio, dove un arrogante patologo americano ordina di riversare centinaia di bottiglie di formaldeide sporca nei lavandini del laboratorio.
Poco tempo dopo due pescatori sul fiume Han si accorgono di un piccolo pesce che sembra avere più code, forse oggetto di una mutazione genetica.
Passano gli anni e alcuni passanti notano su uno dei ponti che attraversano l’Han, una strana creatura che finisce velocemente in acqua. Pochi minuti dopo si accorgeranno che si tratta di un mostro anfibio, che fa strage dei turisti e dei curiosi, trascinando con sè, prima di inabissarsi di nuovo nelle acque del fiume, Hyun-seo, la più piccola dei Park, una famiglia, che gestisce un chiosco proprio sulla riva del fiume: il padre, il biondo Gang-du, è uno sfaticato abbandonato dalla madre di Hyun-Seo tredici anni prima, il nonno Hie-bong porta avanti quasi da solo l’attività, lo zio Nam-il è l’unico della famiglia che ha studiato e si è laureato, la zia Nam-joo è una campionessa di tiro con l’arco, che durante l’attacco del mostro si stava giocando in diretta televisiva la semifinale nazionale, perdendola.
La autorità sembrano voler coprire la vera natura del mostro, isolando l’area e deportando tutti coloro che sono entrati in contatto con l’anfibio, attribuendo i decessi ad un virus letale.
Ma i Park stanno bene e quando ricevono una telefonata confusa da parte di Hyun-seo, che credevano già morta, decidono di scappare dall’ospedale in cui sono confinati in quarantena e di perlustrare le fogne della città per cercarla e trarla in salvo.
Ma nelle fogne non sono soli. Ci sono dropout ed emarginati e due fratelli che cercano di sopravvivere, in una baracca di fortuna, secondo la filosofia del seo-ri, ovvero prendendo ‘a prestito’ quello che gli è necessario.
Bong Joon Ho, forte del successo critico e dei buoni risultati al box office di Memorie di un assassino, realizza il suo film più ambizioso e dispendioso, un monster-movie da 10 milioni di dollari, che avrebbe voluto realizzare in collaborazione con la WETA di Peter Jackson.
Un film che sfrutta perfettamente le coordinate di genere, per raccontare la profonda corruzione del suo paese, le storture della sua struttura sociale, la posizione di subalternità culturale ed economica rispetto agli Stati Uniti.
Ancora una volta la polizia e le forze dell’ordine sono travolti dall’ironia amarissima di Bong, ma anche l’apparato medico e la comunità scientifica vengono ritratti con toni surreali, in un film sempre molto esplicito nel farsi gioco di chi dovrebbe proteggere gli altri. E invece…
Come in Parasite, i suoi protagonisti sono una famiglia di emarginati e persone semplici, a cui neppure il talento o gli studi hanno regalato un po’ di fortuna. Ma anche qui, pian piano, scopriamo che c’è qualcuno ancora più solo, ancora più abbandonato. La scala sociale si sviluppa solo verso il basso.
Il sodalizio con Song Kang ho, inaugurato con Memorie di un assassino, si rinnova qui una seconda volta, con l’attore che presta la sua maschera buffa e bonaria al protagonista, il biondo sempliciotto Gang-du, che viene inquadrato la prima volta, mentre dorme nel chiosco di famiglia, appoggiato agli snack che dovrebbe vendere, ma che poi diventa l’eroe instancabile del gruppo di salvataggio, animato da una dedizione e un amore per la figlia, che non si fermano davanti a nulla.
Quello che all’inizio appare come il più classico dei B-movie, cambia, a poco a poco, grazie alla capacità di Bong di inserire elementi diversi, dalla commedia di costume, al melò familiare, dall’action metropolitano, fino alla satira politica, dalla riflessione sociale all’horror, alternando sapientemente i registri drammatici, per creare un film assolutamente unico e personale.
Il comico e il tragico si fondono nella solita grottesca rappresentazione del reale e delle strutture del potere.
Se il governo è lontano e colluso e i padri sono stati assenti e complici di quella corruzione, tocca allora ai figli – divisi tra ribellione velleitaria, afasia intellettuale ed eterne esitazioni – farsi carico assieme di ricostruire i rapporti familiari in una possibile forma di resistenza, combattendo quell’individualismo disperato e egoista, che altrimenti resterebbe come unica risposta possibile alla domanda di autoconservazione.
La regia di Bong è qui capace di sfruttare sapientemente i grandi quadri d’azione, alternando soggettive strette, macchina a spalla e campi lunghi, riuscendo nell’impresa di tenere sotto controllo l’emergere magmatico delle emozioni e dei generi diversi, che trova la sua apoteosi nella mezz’ora finale in cui tutti i personaggi convergono verso il ponte dove si nasconde il mostro, mentre in superficie una manifestazione chiede la liberazione della famiglia Park e la fine dell’ingerenza militare e sanitaria americana.
Amarissimo eppure irriducibilmente umanista, il cinema di Bong trova in The Host una sorta di controcanto di speranza al dolente pessimismo di Memorie di un assassino: ancora crudele e critico, ma questa volta capace di accendere un barlume di malinconica speranza, sia pure incarnato in una famiglia di perdenti che, per una volta, decidono di fare la cosa giusta.
C’è ancora uno sguardo in macchina di Song Kang ho a chiudere The Host, il suo Gang-du questa volta è vigile, all’interno del suo chiosco, scruta il fiume Han, in una notte di neve. Alle pareti, le foto di chi non ce l’ha fatta. Accanto a lui qualcuno con cui ricominciare da capo.
Da non perdere.