Nel vastissimo catalogo Netflix, non poteva certamente mancare una commedia scritta, prodotta e interpretata da Mark Duplass, uno dei fondatori del movimento mumblecore, che ha indubbiamente influenzato il cinema indie americano dalla fine degli anni ’90 e che ha trovato in Greta Gerwig e Noah Baumbach i suoi punti di riferimento più noti.
Paddleton scritto assieme ad Alex Lehmann, che firma anche la regia, è un racconto di amicizia, tumore e morte, che poggia interamente sulle spalle dei due protagonisti, Mark Duplass appunto e Ray Romano.
I due, Michael e Andy, sono vicini di casa, occupano due appartamenti di un piccolo complesso. Non hanno famiglia, non hanno mogli o figli. Uomini di mezz’età, impiegati, passano le loro serate mangiando pizza assieme, costruendo puzzle, giocando a Trivial, discutendo di un memorabile halftime speech e guardando infinite volte il vhs di un fantomatico film di Kung fu, intitolato Death Punch.
Si sono persino inventati un gioco con racchette, palline e un bidone, chiamato appunto paddleton. La loro è una piccola routine consolidata, che sembra andare avanti da sempre, fondata sull’ironia e il nonsense.
Sono una famiglia sui generis, in cui l’amicizia e la camraderie maschile hanno sostituito gli affetti, tanto che in un hotel li scambiano persino per una coppia di fatto.
Quando a Michael viene diagnosticato un tumore le cose si fanno più complicate. Il film diventa così un lungo avvicinamento alla morte.
Raccontato con i mezzi toni tipici del cinema indie, da cui provengono i suoi interpreti, Paddleton – che ha debuttato al Sundance, prima di approdare su Netflix – affonda le sue radici nel minimalismo, così tipico di tanta letteratura americana da Raymond Carver in avanti.
Il film di Lehmann è fatto di pochissimi elementi, due soli personaggi in scena, una drammaturgia ridotta all’essenziale, che accompagna i protagonisti in quello che è un lungo addio.
Chi si aspetta il melodramma, la progressione della malattia, la sofferenza e calde lacrime ha sbagliato film. Siamo all’opposto di 50 e 50 o di Voglia di tenerezza.
E’ difficile raccontare la morte, ancor di più quando, come in questo caso, non è accidente improvviso con cui fare i conti, ma scelta consapevole e dignitosa.
Si tratta di temi sensibilissimi e personali, che il film attraversa con la giusta dose di malinconica rassegnazione, cercando pian piano di spostare la prospettiva dalla parte di chi resta, di chi deve fare i conti con l’assenza.
Se infatti nella prima parte, il film sembra incerto nei suoi toni, ansioso di non fare passi falsi, tradendo il suo spirito agrodolce e la sua ironia, è nel finale che trova la sua dimensione più autentica e problematica, forse un po’ troppo tardi.
Andy cerca di rimandare la fine, mostra gelosie imprevedibili, fragilità inaspettate, timoroso di una solitudine non più condivisa, in cui i riti, che riempivano la sua vita, sembrano improvvisamente perdere senso e significato.
Paddleton descrive un’umanità piccola e può irritare il suo tono dimesso, la sua emotività trattenuta, ma non è privo di verità e di precisione psicologica, anche grazie ai due interpreti, che indossano i panni e le idiosincrasie di Micheal e Andy con consumata naturalezza.