La leggenda narra che tutto sia nato alla fine degli anni ’50, dall’idea di un benzinaio, raccolta dal regista Gilbert Kay e poi raccontata a Peter Lawford e Frank Sinatra. Il Rat Pack – il gruppo di amici formatosi a casa di Bogart e della Bacall, e poi consolidatosi attorno a Dean Martin, Sammy Davis Jr, Joey Bishop e a Sinatra e Lawford, per l’appunto – stava cercando un modo cementare quel legame sul grande schermo, pagando un doveroso omaggio al glamour di Las Vegas dove erano di casa.
Ocean’s Eleven nel 1960 era proprio questo: un heist movie divertente e divertito, dove ciascuno dei cinque poteva brillare dare sfoggio del proprio repertorio.
Il talento postmoderno di Steven Soderbergh si era fatto carico nel 2001 di riaggiornare la storia al servizio di una nuova generazione di divi, George Clooney, Brad Pitt, Matt Damon, Julia Roberts. Ne era nata una trilogia conclusasi nel 2007 con la truffa ai danni di un nuovo villain, Al Pacino.
Ocean’s 8 è invece il tentativo della Warner di proseguire la serie da un percorso diverso.
Danny Ocean è morto. O quantomeno, c’è una tomba a suo nome, dove la sorella Debbie lo piange: è appena uscita di prigione, dopo essere stata incastrata da un gallerista truffatore di cui si era innamorata.
Ad attenderla la socia Lou, alla quale racconta di aver impegnato i cinque anni di galera per mettere a punto un piano perfetto: ruberanno una collana di diamanti di Cartier, al gala annuale del Met di New York.
Per riuscirci hanno bisogno di una banda nuova, composta da una hacker, una borseggiatrice formidabile, una’esperta di pietre preziose, una ricettatrice e una stilista con grandi problemi col fisco.
Il film, scritto dalla giovane Olivia Milch e diretto dall’esperto Gary Ross, soffre di un’evidente strabismo di sguardo.
Se infatti l’impianto narrativo è per lo più tradizionale, impegnato a rifare i cliché di genere, senza grandi colpi di scena, emergono qua e là momenti e battute certamente più sapidi, di stampo più femminile, come nel furto iniziale al negozio di cosmetici e al grand hotel o come nell’uso creativo di un fasciatoio e nell’inaccessibilità del bagno delle donne, in uno dei momenti chiave.
Ed è un peccato che accanto a queste piccole note originali e inconsuete, il film non abbia il coraggio di osare una rappresentazione delle otto protagoniste un po’ meno appiattita su stereotipi vetusti, con la dura che va in moto, la creativa scombinata e spendacciona, la diva oca che invece capisce tutto, la tradita che cerca vendetta.
Manca del tutto un credibile villain nel film e quelli che ci sono – ovviamente uomini, ovvero il gallerista e l’investigatore assicurativo – sono così mal caratterizzati da far crollare ogni tensione e mettere in crisi la plausibilità del tutto.
Anche la stessa rappresentazione delle due protagoniste e delle loro alleate sembra uscita dalla penna del solito sceneggiatore hollywoodiano, misogino quanto basta, da far sembrare lo script un recupero degli anni ’50.
Eppure la Blanchett e la Bullock sembrano crederci davvero, nonostante il film non ne assecondi mai davvero il talento, oltre alla bellezza.
Il fascino stropicciato e l’understatement ironico di Clooney e Pitt erano anche il frutto della bravura di Soderbergh, della naturalezza con cui tutto sembrava scorrere veloce e leggero nel film del 2001, anche grazie ad un controcanto comico, affidato ad uno stuolo di comprimari e caratteristi.
La messa in scena del colpo non riesce mai a raggiungere davvero la fluida nonchalance con cui il regista di Traffic incastrava le ellissi più audaci, facendosi beffe dello spettatore e ingannandolo ‘a fin di bene‘.
Qui tutto sembra più macchinoso, il trucco sembra sempre sul punto di mostrare l’inganno e, nonostante il film sia certamente piacevole per una calda sera d’estate, la Warner avrebbe potuto avere più coraggio, affidando il set a mani meno invisibili e anonime di quelle di Gary Ross.
L’idea di ambientare il colpo al gala del Met, in una serata che è la celebrazione di quella cultura del lusso e del glamour, della celebrità e dell’apparenza, avrebbe potuto essere sfruttata decisamente meglio, invece anche su questo Ross sembra non avere nulla da dire, se non montare i cameo di star e modelle, come nella peggiore puntata di Sex & the City.
E’ un film di occasioni mancate questo Ocean’s 8, che non riesce mai davvero ad essere liberatorio e sovversivo, come ogni ‘colpo grosso’ dovrebbe essere.