American Crime Story: The Assassination of Gianni Versace

La seconda stagione di American Crime Story, la serie antologica FOX, ha come tema l’assassinio di Gianni Versace.

E’ impossibile raccontare la trama senza intrecciare i due temi principali, cioè la società americana e la visione degli omosessuali negli anni’90; il che ha profondamente deluso quanti si aspettavano più tempo dedicato a Gianni Versace e alla sua azienda/famiglia: le vicende di Versace all’interno dello show sono infatti ritagli estemporanei che, per quanto interessanti, sembrano legati alle vicende di Kunanan solo perché ne enfatizzano, per contrasto, la privazione (di sentimenti, di valori, di prospettiva).

Il paradosso è che sono proprio questi i momenti (per quanto spesso poco verosimili nell’ambientazione) più convincenti, anche grazie alla performance di Penélope Cruz, una credibile Donatella Versace.

Nulla da stupirsi: stiamo parlando di un’american crime story: è quindi naturale non solo l’attenzione a storie che aiutano a raccontare l’America, ma anche che la vita di Versace venga presentata da un punto di vista prettamente americano, identificando lo stilista come un self-made man che ha creato la propria azienda partendo da un oscuro paese della Calabria per raggiungere il successo grazie al duro lavoro.

Per quanto il tema dell’omosessualità sia centrale, lo è altrettanto l’intento pedagogico. Lo show insiste sul paragone tra come Versace sfrutta il proprio talento e come lo fa Andrew Kunanan (un Darren Criss spesso sopra le righe): il successo di Gianni (interpretato da un sobrio Édgar Ramírez) appare allo spettatore non tanto il frutto di una qualche fortunata serie di circostanze, come crede il suo assassino, quanto la conseguenza necessaria dell’impegno profuso dall’uomo per realizzare i propri sogni.

Andrew è l’uomo con qualità, ma che non vuole faticare per farle fruttare ed è questo che, a più riprese e da più parti, gli viene rimproverato. Il rapporto fra la vittima e il suo assassino è pressoché inesistente: l’intento – e il montaggio lo sottolinea con forza – è piuttosto contrapporre le loro vite.

Il titolo dell’ottavo episodio (Creator/destroyer) in cui ci immergiamo nell’infanzia dei due uomini è emblematico di questa – forzata – opposizione tra Versace (creator) e Cunanan (destroyer). La sequenza con il montaggio alternato del colloquio del padre, Pete, alla Merryll-Lynch e del figlio, Andrew, alla scuola più prestigiosa della zona vuole mettere in parallelo le vite dei due Cunanan, anticipandoci come Andrew finirà per seguire le orme del padre, cioè vendere un’identità che non gli appartiene; saranno la separazione da Norman Blachford (un sempre affascinante Michael Nouri che ci riporta ai fasti di Flashdance) e i contrasti con Jeff  (Finn Wittrock) ad innescare la miccia che porterà Andrew, bugiardo patologico e tossicodipendente, ad assumere anche il ruolo del serial killer.

La storia, che si basa sul libro della giornalista Maureen Orth pubblicato in Italia con il titolo Il caso Versace dell’editore TRE60, è anche la storia del travagliato rapporto della società americana con l’omosessualità negli anni ‘90.

Siamo in un periodo in cui, se un omosessuale si ammala, viene rapinato o viene ucciso il pensiero diffuso è che se la sia cercata. Raccontare l’omosessualità consente di raccontare anche la famiglia americana con le sue ambizioni, frustrazioni e idiosincrasie.

Il tema della famiglia torna a più riprese in questo inizio di 2018, come abbiamo già analizzato in un altro nostro articolo: anche in questo caso, come nella serie Here and Now, ci sono tutti gli elementi tipici di una lettura basata sul genere e sulla diversità: il padre di Cunanan è di Manila e quando il figlio gli rinfaccia di aver sempre rubato e mentito e di essere un bluff, la sua risposta è la sconfessione del sogno americano e della possibilità di realizzarsi negli USA rispettando la legge.

La famiglia Cunanan è una famiglia che si regge sulle macerie di ogni rapporto di tipo personale tra il padre e la madre, tra il padre e gli altri figli e, infine, anche tra il padre e l’inizialmente adorato Andrew.

Ma di famiglie se ne incontrano altre: quella di David, quella di Jeff, quella di Lee Miglin e sono tutte situazioni in cui emerge con forza il senso di disagio e di rifiuto verso il tema dell’omosessualità che pervadeva la società americana negli anni ‘90 e che fin dalla prima puntata è dichiarato: basti pensare all’interrogatorio condotto dalla polizia verso il compagno di Versace, Antonio D’Amico (Ricky Martin).

Anche per Versace la famiglia è importante: il rapporto con la sorella, l’influenza della madre rappresentano ancora una volta l’altra faccia della medaglia perché i valori familiari sono nutriti da un rapporto carico di affetto e di rispetto. Entrambi elementi che nella famiglia Cunanan sono assenti.

Dal punto di vista stilistico ci troviamo di fronte ad uno show di assoluto valore, con una fotografia caleidoscopica e inquadrature che rendono perfettamente la magnificenza di Versace: si pensi al primo episodio, significativo, con il predominare delle inquadrature dal basso verso l’alto o dei fili a piombo, arricchito da colori rutilanti che sembrano riportare in vita lo sfarzo degli imperatori romani, omaggiando i cromatismi vivaci dei lavori di Versace.

Lo show ha l’ambizione di esplorare l’anima americana, ma alla fine ogni situazione che passa tra le mani di Andrew viene ridotta a sfondo insipido e senza profondità.

E’ come se la storia fosse bidimensionale invece che tridimensionale: manca di spessore. Lo stesso vale anche per la rappresentazione del mondo gay: locali separati, circoli di amici, feste e party riservati hanno un forte sapore di cliché. Non viene poi esplorato il rapporto quotidiano degli omosessuali con gli eterosessuali nella società americana.

Anche all’interno delle famiglie americane che vengono descritte i contrasti legati agli orientamenti sessuali sono sempre superficiali e non scavano mai nel profondo. Forse l’unico momento in cui si porta alla luce il disagio e la discriminazione è quello in cui Jeff decide di farsi intervistare per denunciare il trattamento degli omosessuali nell’U.S. Navy, ma anche in quel caso l’intervista resta fine a se stessa e nell’economia narrativa ha il solo scopo di spiegare perché il ragazzo abbandona la marina. Un discorso analogo per l’intervista rilasciata da Versace alla rivista “The Advocate’s” che negli anni ’90 fece molto scalpore e che invece la serie non riesce a rendere nel suo significato per il movimento LGBT.

Una serie che sembra monotona e triste …“come un tailleur di Armani”.

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