Barriere – Fences

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August Wilson è stato un dei più famosi drammaturghi di colore del teatro americano. Con Fences, scritto nel 1985 vinse il primo dei suoi due premi Pulitzer.

Morto per un tumore nel 2005 a soli 60 anni, Wilson aveva lasciato un adattamento del suo lavoro, per una futura versione cinematografica, insistendo però che fosse un regista nero a dirigerla.

Dopo aver interpretato la pièce a teatro, nella riedizione del 2010, vincendo con Viola Davis il Tony Award per la migliore interpretazione dell’anno, Denzel Washington ha deciso di esaudire il desiderio di Wilson, dirigendo ed interpretando Fences sul grande schermo.

Per l’occasione ha affidato ad un altro grande drammaturgo, Tony Kushner (Angels in America, ma anche Munich, Lincoln) il compito di mettere mano al copione originale di Wilson.

Il risultato è un drammone vecchio stile di due ore e diciotto interminabili minuti, girato praticamente tutto nel backyard della tipica villetta americana, con il solo intento di fornire ai suoi attori un nuovo palcoscenico, su cui mettere in mostra il loro talento.

Siamo nella Pittsburgh degli anni ’50, Troy Maxson è uno spazzino, che lavora sodo, per mantenere la sua famiglia, dopo che il suo talento nel baseball non si era trasformato in una carriera da professionista, forse per motivi razziali, forse più semplicemente per questioni d’età.

Sposato con la paziente e devota Rose, ha due figli: il musicista jazz Lyons, che cerca una sua strada nella passione per la musica e il più piccolo Cory, che vorrebbe giocare a football, nonostante il padre cerchi di impedirgli con ogni mezzo di farsi illusioni sportive, nonostante alcune università si siano già interessate.

Nei continui faccia a faccia con la sua famiglia, con l’amico e collega Bono e con il fratello Gabriel, tornato dalla guerra fuori di senno e con una placca d’acciaio in testa, Troy cerca di affermare il suo ruolo di rigido pater familias, secondo quelli che erano i canoni educativi dell’America degli anni ’50.

Ma dietro la sua durezza, si nasconde un uomo insoddisfatto di sè, sconfitto dalla vita, rancoroso, pieno di rimorsi e di rimpianti, sbruffone e ciarliero.

Come da copione, l’apparente calma familiare viene messa in crisi dal riemergere di segreti rimossi, dai conflitti con il figlio Cory e da un tradimento, che rimane sempre fuori scena, ma le cui conseguenze deflagrano sulla famiglia Maxson, con effetti, tuttavia, piuttosto prevedibili.

Il lavoro di Wilson, sia pure relativamente recente, sembra nato vecchio, ponendosi esattamente sulla scia del teatro classico americano del dopoguerra, in particolare quello di Arthur Miller, riproducendone tutte le ansie e i conflitti, in un contesto in cui gli unici protagonisti sono però afro-americani e nel quale si riversano pertanto tutte le loro frustrazioni razziali.

Il film di Washington si accontenta di una messa in scena, che assomiglia ad una semplice ripresa teatrale e si mette al servizio degli attori, in modo francamente esagerato.

Washington attore contiene a fatica il suo istrionismo, in una di quelle parti che sembrano scritte apposta per far vincere premi, ma che affondano nella retorica e nei cliché di una pletora di scene-madri, sempre sopra le righe.

Persino Viola Davis, che pure per tutto il film cerca una recitazione sottotono, minimale, finisce per strafare nel tronfio monologo finale.

L’opera di Washington non parla il linguaggio del cinema, si chiude nel film a tesi, nella pur legittima rivendicazione orgogliosa di un’identità culturale, troppo a lungo negata.

Ma al netto dei buoni propositi, Fences è un’operazione, che finisce per rivolgersi solo ad un pubblico d’elezione americano e afro-americano, in particolare. Un film che si chiude nella sua nicchia, di pura testimonianza, e che lascia del tutto indifferente chi ne è estraneo.

Un film paternalista, buono forse per qualche dibattito scolastico e nulla più.

In sala dal 23 febbraio.

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