Man of Steel – L’uomo d’acciaio

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Man of Steel – L’uomo d’acciaio *1/2

La Warner Bros ci ha riprovato un’altra volta. Ed ha fallito ancora. Ancor più fragorosamente che in passato.

Ha affidato a Christopher Nolan, reduce dai successi del Cavaliere Oscuro, la possibilità di lavorare all’altro grande super-eroe della tradizione. E Nolan ha cercato di scrivere, assieme al fidato David S. Goyer, una nuova storia d’origine, per rifondare l’immaginario dell’uomo d’acciaio.

Purtroppo ha compiuto un errore fondamentale: ha assegnato a Zack Snyder (300, Watchmen, Sucker Punch) il compito di guidare l’impresa.

E Snyder l’ha ripagato nel solo modo che conosce: 145 minuti di azione ininterrotta, un tour de force che annienta qualsiasi riflessione, appiattisce ogni svolta drammatica e colpisce a morte il film con la sua ottusa ripetitività.

Ogni tentativo di rendere adulta, problematica la parabola dell’alieno caduto sulla Terra, viene spazzato via dalla necessità compulsiva di Snyder di rilanciare continuamente l’azione, con un tornado gigantesco, un incendio su una piattaforma petrolifera, un incidente sullo scuolabus. Non c’è mai una tregua. E la colonna sonora di Hans Zimmer non fa che aumentare questa cacofonia visiva, con uno score percussivo, invadente, che non lascia respirare il film, ma che non lascia neppure tracce nell’ascoltatore: non c’è più nulla del tema leggendario di John Williams, solo un continuo rumore di fondo…

L’inizio è promettente. I primi venti minuti sono dedicati alla storia di Krypton che muore e del duplice tentativo di salvarlo. Il pianeta sta collassando su se stesso a causa di una politica ambientale e di sfruttamento delle risorse dissennata. Le uniche chance sono affidate a due uomini: lo scienziato Jor-El -che instilla nel figlio Kal, il primo nato naturalmente e non in vitro da molti secoli, il codice genetico di un’intera civiltà al tramonto ed assieme gli dona la forza del libero arbitrio – e il Generale Zod – programmato per difendere il suo popolo con ogni mezzo – che guida una rivolta contro il consiglio dei sapienti e contro lo stesso Jor-El, seguendo il compito che il destino gli ha assegnato.

Jor-El spedisce il neonato Kal sulla Terra, convinto che potrà ricreare lì una nuova Krypton, senza conflitti con le popolazioni esistenti.

Subito dopo muore per mano di Zod, la cui rivolta viene infine sedata e tramutata in esilio, un attimo prima che il pianeta si autodistrugga.

Nella creazione del mondo di Krypton, Snyder ed i suoi collaboratori danno il loro meglio, con una fantasia debitrice tanto del mondo Alien e di Dune, quanto delle forme della archistar Zaha Hadid.

Purtroppo quando la storia si sposta sulla Terra ritroviamo il nostro eroe già adulto: a 33 anni Kal cerca di far perdere le sue tracce e di nascondersi al mondo, lavorando su un peschereccio e poi in un bar di provincia.

E’ però sempre pronto a correre in soccorso di chi rischia la vita ed al contempo deve tenere a freno la sua forza straordinaria, accentuata dalla diversa composizione dell’atmosfera terrestre.

Almeno sino a quando la notizia di un ritrovamento eccezionale e misterioso nei ghiacciai del Canada, non lo spingono a ricercare le origini della sua forza.

Qui avviene l’incontro con la giornalista d’assalto e premio Pulitzer (?!) Lois Lane e contemporaneamente quello con il padre Jor-El, presente nella Fortezza della Solitudine come una sorta ologramma cosciente.

Nel frattempo, in numerosi flashback, rivediamo Kal diventare Clark Kent, grazie all’amore protettivo dei suoi genitori adottivi ed al sacrificio di Pa’ Kent.

La consegna del costume a Kal e la decisione di utilizzare la propria unicità per aiutare gli umani che l’hanno ospitato per molti anni, sono descritte con mano felice e con uno stile che rende esaltante e coinvolgente anche il primo volo dell’uomo col mantello rosso.

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Snyder esaurisce la sua vena poetica in qualche bella immagine rubata al naturalismo di Malick, nell’uso inedito della camera a spalla ed in un paio di riusciti duetti tra il piccolo Kal e Pa’ Kent, in cui sente il peso della scrittura di Nolan. Non si capisce poi perché riempia il film di un fastidiosissimo ed insistito lens flare, neanche fossimo in un film di J.J.Abrams.

Purtroppo non appena il generale Zod si libera dal giogo in cui era costretto dal consiglio di Krypton ed individua Kal sulla Terra, il film ripiomba nel solito cliché distruttivo che ha contagiato ogni blockbuster da ormai quasi dieci anni a questa parte.

I kryptoniani, pressoché invincibili, lottano a mani nude, l’un contro l’alto, indifferenti alla devastazione, prima di Smallville, quindi di Metropolis.

Con il solito corollario di effetti speciali e grandiosità scenografica, Superman, Zod ed i suoi alleati si sfidano a pugni e calci nel consueto contesto urbano, radendo al suolo pressoché ogni cosa.

Come fossimo nel peggior Transformers o in uno dei concorrenti della Marvel (The Avengers, Thor, Iron Man) assistiamo ad un’ora abbondante di scontri fisici, tra soggetti che apparentemente non possono morire…

Snyder butta via ogni sottigliezza ed ogni buona intenzione, per riproporre la solita orrenda carneficina, naturalmente senza una goccia di sangue.

Il film cade più volte nel ridicolo involontario, diventa sempre più implausibile e raffazzonato.

Qualcuno tra i soliti esegeti esalterà e difenderà l’ennesimo corpo a corpo del cinema di Snyder, la sua continua ricerca di grandiosità epica, il suo ottuso scrutare.

In realtà Snyder, ma forse anche Goyer e Nolan, non hanno compreso che la grandezza ed il successo moderno di un personaggio così inattuale come l’uomo d’acciaio sta nella forza simbolica delle sue origini: nel paese dei padri pellegrini e delle 13 colonie, Superman è l’americano per eccellenza, un immigrato che arriva da un altro mondo e che lotta per farsi accettare. E’ l’outsider che ribalta la sua diversità facendone un punto di forza, che scappa dal proprio universo decadente per approdare nella Terra delle Opportunità, è l’idealista capace di raddrizzare i torti ergendosi a paladino dei più deboli. E’ il Dio pagano del sogno americano, dell’illusione di una seconda opportunità.

I tre autori sfiorano solamente questi temi, troppo preoccupati di costruire l’ennesimo giocattolone per tredicenni, chiassoso e fracassone, senza un’ombra di autoironia, buttando via una chance unica di rifondare il mito sulle delle basi finalmente solide e non sugli elementi esteriori della tradizione, come il costume, il simbolo rosso e giallo, il mantello e persino – in extremis – gli occhialoni di Clark Kent.

Nella prima parte, la sceneggiatura di Goyer e Nolan tenta di riscrivere la storia di Superman come quella di un alieno costretto a nascondersi e non di un supereroe vestito di blu, ma Snyder manda tutto a carte all’aria, impaziente di mostrare continuamente i muscoli, persino nei flashback di Kal bambino. Il film così non trova mai il suo ritmo, continuamente frammentato ed esagerato al tempo stesso.

L’idea è quella di tenersi lontani dalla scelta della Marvel, che ha pescato a piene mani dai meccanismi della commedia, da quella sofisticata alla slapstick, sino a quella più volgare.

Qui il tono è sempre grave e serioso, con evidenti ed impropri richiami cristologici, sempre superficiali.

Eppure, nonostante i suoi limiti, il film per oltre un’ora resta a galla. Poi, dopo la memorabile entrata in scena di Zod con un messaggio fantasma che inonda tv e smarphone, il film si adagia definitivamente nella comoda riproposizione del già visto.

Cavill se la cava discretamente, ma non aggiunge molta umanità al suo Kal-El, che sembra sempre eterodiretto da qualcun altro. Pregevole invece il contributo di Kevin Costner che dona al suo personaggio, Pa’ Kent, un’aura elegiaca, fuori dal tempo.

Russell Crowe – Jor-El ha un ruolo molto più ampio di quello originariamente interpretato da Marlon Brando, ma se la cava con consumato mestiere.

Lo Zod di Michael Shannon non eguaglia quello di Terence Stamp, ma ha una sua statura tragica, mentre rimangono poco più che maschere di comodo quelle di Lois Lane, interpretata da Amy Adams, quella di Ma’ Kent, interpretata da un’invecchiatissima Diane Lane, così come il Perry White di Fishbourne, poco aiutati da una sceneggiatura superficiale.

Non tutto è da buttare, ma il fallimento complessivo (almeno dal punto di vista artistico) di un film come L’uomo d’acciaio, che coinvolge alcuni dei maggiori talenti di Hollywood, segna il punto più basso di un’industria completamente allo sbando, capace di produrre solo enormi attese e altrettanto grandi delusioni.

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