Cannes 2024. Parthenope

Parthenope ***

Madame Bovary c’est moi” rispose Gustave Flaubert a chi gli chiedeva della protagonista del suo capolavoro.

Potrebbe fare lo stesso Paolo Sorrentino a proposito di Parthenope, il personaggio eponimo al centro del suo ultimo, bellissimo film, il primo interamente femminile nella sua lunga carriera.

Rispetto all’autobiografia cinematografica di una giovinezza perduta – e di una città abbandonata – che era la sostanza ultima di E’ stata la mano di Dio, Parthenope ne è una variazione mitica e speculare.

Sorrentino non è mai stato così sincero e sentimentale, nel raccontare la malinconica accettazione del tempo passato e dell’età più dolce, confinati nello spazio del ricordo e forse del rimpianto.

Soprattutto nella prima parte, ambientata nella Napoli degli anni ’50 e ’60, in un’estate infinita di amori, scoperte, rifiuti e bellezza, Parthenope sembra fare i conti anche con il capolavoro di Raffaele La Capria, quel Ferito a morte che Sorrentino ha spesso immaginato di portare a cinema e che qui sembra evocato in ogni dialogo.

E’ impossibile essere felici nella città più bella del mondo” e questo sembra il destino di Parthenope, nata in mare nel 1950 e battezzata da Achille Lauro con l’antico nome della città. Il padre è il contabile e consigliere dell’armatore.

Con un salto temporale ci spostiamo all’estate del 1968: Parthenope, il fratello Raimondo e l’amico Sandrino, innamoratissimo di lei, decidono di trascorrere l’estate a Capri, “il posto in cui i napoletani non vanno mai o troppo poveri o troppo pigri”.

Tra bagni, mollezze, feste e l’elicottero dell’Avvocato che ronza su di loro, Parthenope è sempre al centro dell’attenzione, ma a lei interessa solo l’incontro con John Cheever, lo scrittore che ama e che passa le su giornate a scrivere e osservare il demi-monde dell’isola, circondato da un numero impressionante di bottiglie e bicchieri di gin: “Non voglio rubare neanche un momento della tua giovinezza”. 

“Sono troppo giovane per comprendere tutte le sfumature”, ma in realtà Parthenope sembra sapere esattamente quello che vuole dalla vita e dagli altri. Rifiuta le proposte indecenti perché “il desiderio è un mistero e il sesso il suo funerale”, finisce per concedersi a Sandrino, che la desidera da tutta la vita.

Ma l’estate sarà fatale per il fratello Raimondo, un ragazzo fragile, il terzo lato di un triangolo che non si chiuderà più.  Mentre la morte sfrangia definitivamente la sua famiglia, Parthenope trova all’università, nei corsi di antropologia dell’amatissimo prof. Marotta, la sua strada nel mondo.

Marotta intuisce la sua intelligenza e la ricambia con il rigore dei comportamenti e l’affetto rude di chi nasconde un dolore segreto fatto di “acqua e sale“, come il mare: “io non la giudicherò mai e lei non mi giudicherà mai”.

I film di Sorrentino sono spesso attraversati da apparizioni, epifanie, personaggi che si limitano a manifestarsi come Fanny Ardant o Antonello Venditti o che hanno una sola grande scena. Ce ne sono diverse anche in questo film, dall’elicottero di Lui ai due incontri del 1974, quando Parthenope prende lezioni di recitazione dall’attrice Flora Malva che gira con addosso una maschera, sfigurata da un chirurgo brasiliano, e poi riesce a scambiare due parole con Greta Cool, una Sophia Loren in sedicesimo, che ad una cerimonia organizzata su una nave di Lauro, riversa sui napoletani tutto il suo disprezzo, tutta la sua crudeltà e riserva a Parthenope il consiglio giusto: lascia stare il cinema, perché nei tuoi occhi non c’è gioia e questo la macchina da presa lo vede e non lo perdona.

Ma la Napoli degli anni ’70 è anche quella del colera, della famiglie criminali del centro storico, che celebrano un’incredibile alleanza, con un accoppiamento tribale “La grande fusione”, in una di quelle scene talmente surreali che solo Sorrentino poteva immaginarla.

Poi ci sono solo un aborto clandestino, la laurea con una tesi sulle frontiere culturali del miracolo e la scelta di rimanere in università con Marotta, accanto agli studenti, con la stessa sensibilità e la stessa umanità del suo maestro, che cita Billy Wilder fra i grandi antropologi del Novecento: “per fare il professore basta essere avanti di una sola lezione rispetto agli studenti”.

L’incontro finale con il Cardinale Tesorone, che custodisce –  fra truffa e miracolo – il mistero del sangue di San Gennaro è quel momento in cui la capacità iconoclasta di Sorrentino si nutre di sacro e di grottesco, in modo sinistro e illuminante.

“La verità non fa parte della giovinezza, è un luogo dove si ha a che fare con l’insincerità, si ha a che fare con il sogno, si fa un racconto epico di sé, si balla da soli davanti lo specchio. Questo racconto si interrompe quando si entra nella fase etica (come la chiamava Kierkegaard) e si esce da quella estetica, quello che sei non ti piace e fai tentativi per uscire da te stesso, senza riuscire, fino a quando finisci per accettarti. E magari riesci ancora a stupirti”. L’avrebbe potuto scrivere Jep Gambardella, che nel suo divertito cinismo custodiva il ricordo di una giovane notte d’estate, ma lo ha detto invece Sorrentino, che ci regala un film frammentato, episodico, sfrangiato eppure coerente.

Un film sulla libertà così assoluto da condurre inevitabilmente alla solitudine, a ricordare senza rabbia gli amori giovanili come uno spazio fuori dal tempo, in cui coltivare l’illusione della spensieratezza, prima che il dolore della vita si porti via tutta la leggerezza.

E se l’antropologia è vedere, saper vedere, ed è la cosa più difficile perché è l’ultima cosa che si impara quando inizia a mancare tutto il resto, il cinema di Sorrentino continua ad alimentare l’illusione di mostrarci qualcosa che sfugge anche a lui, perché in fondo “la verità è indicibile” e alla fine quello che resta è solo l’ironia. Più volte viene chiesto a Parthenope “Cosa stai pensando?”, ma l’interrogativo rimane nell’aria, senza risposte.

Parthenope è un film che si presta a sentimenti estremi: l’amore più assoluto e l’odio più pervicace.

Consentiteci invece, almeno in questa recensione a caldo, poche ore dopo la prima a Cannes, una scelta meno radicale, che riconosce la bellezza del cinema di Sorrentino, la sua dimensione non necessaria, ma che vede anche la fragilità dolente di questo lavoro, la sua natura intima, il suo esporsi, ferito, al mondo.

La Napoli che ritrae è una città troppo bella per essere vera, d’altronde è quella del ricordo, della memoria e della gioventù: non avrebbe potuto essere altrimenti. Una città idealizzata, perduta e ritrovata, a cui però Sorrentino trova il modo di fare il contropelo, nel formidabile monologo di Greta Cool e nella lunga notte dei bassi e del boss Criscuolo.

Il regista si affida ancora una volta a Céline per l’epigrafe, una frase recitata da Stefania Sandrelli che poi appare sullo schermo: “Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto”.

Per Celeste Dalla Porta è il ruolo di una vita. Come disse Bertolucci a proposito di Eva Green, la sua è “una bellezza sfacciata”, portata con una consapevolezza disarmante. Il film è suo e lei se lo prende con una bravura e un’incoscienza che solo un’esordiente potrebbe avere.

Attorno a lei volti e corpi del cinema di Sorrentino, una serie di ritratti, di schizzi, di caricature, che sono anche un divertito campionario antropologico, su cui tuttavia spicca un monumentale Silvio Orlando, a cui l’età ha donato una gravitas e una profondità inarrivabili, che non mitigano, dietro l’apparente freddezza, una umanità e una compassione che non possono lasciare indifferenti.

La scrittura è fin troppo densa di citazioni, di aforismi, di quelle “frasi ad effetto” che Raimondo rimprovera a Parthenope: perfette ma vuote.

Le musiche di Lele Marchitelli, che integrano un bellissimo bolero che accompagna la primavera napoletana, assecondano il ritmo interiore del film, ipnotico, sospeso. Al suo interno Paoli, Sinatra e soprattutto il Cocciante di Era già tutto previsto, che Sorrentino lascia per intero nell’ultima scena assieme di Raimondo, Gianni e Parthenope e recupera nel finale.

La fotografia anche questa volta è di Daria D’Antonio: calda, assolata, contrastatissima nelle notti capresi e in quelle napoletane, forse sin troppo perfetta e cesellata.

Sorrentino si muove sinuoso e leggero come sempre, accarezzando i suoi personaggi con la consueta eleganza.

Tuttavia questo non è un film da analizzare troppo nei particolari: si può essere sopraffatti dallo stupore e dalla bellezza oppure rimanerne infastiditi, si può entrare nel mondo di Parthenope o restare sulla porta.

Come ha scritto Boris Sollazzo su Hollywood Reporter, questo film è soprattutto per noi napoletani che viviamo lontano, figli di una diaspora scelta o subita, amanti di una città che vive solo nel ricordo affettuoso o pieno di rancore.

“E poi tutti gli altri, i napoletani, vissuti, osservati, amati, uomini e donne, disillusi e vitali, le loro derive malinconiche, le ironie tragiche, gli occhi un po’ avviliti, le impazienze, la perdita della speranza di poter ridere ancora una volta per un uomo distinto che inciampa e cade in una via del centro. Sa essere lunghissima la vita, memorabile o ordinaria. Lo scorrere del tempo regala tutto il repertorio di sentimenti. E lì in fondo, vicina e lontana, questa città indefinibile, Napoli, che ammalia, incanta, urla, ride e poi sa farti male”.

E tu, cosa ne pensi?

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.