Non lasciarmi – Never let me go

Non lasciarmi – Never let me go ***1/2

It’s about the brevity of our time on the planet. And when we become aware of how briefly we’re here, how do we make the best use of our time? And how do we not come to the end of our life and regret our choices? That’s the film I was making. The science-fiction aspects are just a delivery system for those ideas.

Mark Romanek, 2010

Mark Romanek ha girato solo tre film nel corso degli ultimi 25 anni: dopo l’esordio di Static nel 1985 e One Hour Photo del 2002 con Robin Williams, l’adattamenteo del capolavoro di Katsuo Ishiguro è il punto più alto di una carriera che ha lasciato il segno, soprattutto in campo musicale e pubblicitario.

Nella seconda metà degli anni ’70, spinto dall’amore per il cinema, fa l’assistente di produzione a De Palma in Fury e poi nell’esperimento Home Movies, con gli studenti del Sarah Lawrence College.  Nella seconda metà degli ani ’80, dopo l’esordio cinematografico, si dedica ai video musicali quindi entra nella Satellite Film, divisione della Propaganda Film di David Fincher. Memorabili i suoi video “Scream” per i fratelli Jackson e “Are you gonna go my way” per Lenny Kravitz e quelli per “Closer” dei Nine Inch Nails, “Bedtime Stories” di Madonna e “Speed of Sound” dei Coldplay.

Purtroppo però, come spesso accade a chi viene dal mondo della pubblicità e dei video, anche Romanek è stato accusato di avere uno stile troppo formale, troppo laccato, capace di soverchiare le sue storie e le emozioni dei suoi personaggi.

Se questo poteva anche essere vero per l’inquietante One Hour Photo, è del tutto irriverente per un piccolo gioiello come Never let me go, capace di un equilibrio miracoloso, di una struggente malinconia e di un senso del destino travolgente.

Il film dopo un breve prologo si apre nel 1978 ad Hailsham, una fantomatica scuola d’elite, dove gli studenti ricevono un’educazione particolare, a tempo pieno: la loro scuola è tutto il loro mondo.

Ci rimangono dalla prima infanzia sino ai diciotto anni e per gran parte del loro apprendistato, sono tenuti all’oscuro della loro vera missione.

E’ difficile parlare del film senza svelare uno degli elementi chiave della storia. Fermatevi, se non volete rovinarvi la sorpresa. Guardate il film e poi tornate qui.

Il romanzo è una storia di fantascienza distopica, che presuppone un’ucronia nella quale il progresso tecnologico ha creato degli esseri umani, cresciuti in istituti organizzati come rigidi collegi, ma da cui non si può uscire: braccialetti elettronici regolano le presenze e leggende terribili sono dedicate a coloro che hanno osato sottrarsi alle attività e superare i confini dei centri.

Sono degli esseri umani clonati, il cui unico scopo nella vita è quello di fornire organi per successivi trapianti. Dopo tre o quattro operazioni, spesso in giovane età, sono destinati alla morte.

Hailsham è un istituto particolare, progressista diremmo, dove si cerca di comprendere e provare che anche i cloni hanno sentimenti, provano affetto, amore, hanno un’anima e un cuore che batte non solo per garantire agli altri organi di funzionare.

Lì crescono i piccoli Kathy, Tommy e Ruth. Tommy è emarginato dagli altri ragazzi perchè non brilla nè dal punto di vista sportivo, nè da quello artistico. La sua unica amica è Kathy. Giocano assieme si scambiano i piccoli regali (vecchie cassette, giochi rotti, bambole danneggiate) che la scuola riceve come donazioni.

Ma è l’intraprendente Ruth a legarsi a Tommy sentimentalmente, quasi solo per dispetto e gelosia, frustrando i sogni dell’amica Kathy.

Nel rigido protocollo imposto dall’istitutrice Miss Emily, si insinua però la giovane insegnate Miss Lucy, che finisce per confessare agli alunni la loro vera natura.

La rivelazione comporta l’allontanamento di Miss Lucy, ma non sembra scuotere la classe, abituata alla remissività di chi non può ribellarsi e ad una serena, ma non meno drammatica accettazione del proprio destino.

Passano gli anni e nel 1985 Ruth, Tommy e Kathy vengono trasferiti in una sorta di casa famiglia, chiamata The Cottages, assieme ad altri diciottenni, provenienti da centri diversi.

Qui fanno le prime esperienze del sesso e della vita all’esterno del loro mondo protetto. Assieme agli altri si spingono in un bar e credono di riconoscere in una ragazza che lavora in un’agenzia l’immagine su cui è stata modellata Ruth: ma non è davvero così.

I rapporti tra i tre sono segnati dalla gelosia e dalla possessività di Ruth e dalla rassegnazione e dal sacrificio di Kathy, che non ha il coraggio di mostrare sino in fondo i suoi sentimenti per Tommy.

Decide quindi di abbandonare i due amici e diventare una “carer”, una sorta di badante, che si occupa di accompagnare e accudire i donatori, prima e dopo le operazioni.

Passano altri nove anni e nel 1994, in un ospedale, Kathy si trova di fronte proprio Ruth, diventata ben presto una “donor”, una donatrice d’organi, la quale ha appena subito il suo secondo trapianto. Le due ricordano la comune giovinezza e decidono di andare a trovare Tommy, per trascorrere qualche giorno tutti assieme.

La voce narrante di Kathy ci accompagna poeticamente attraverso i quindici anni raccontati da Romanek: il desiderio di vita, il tempo che scorre implacabile, i sentimenti che travolgono e spezzano amicizie e complicità, il senso opprimente di un destino segnato eppure accettato con una grazia non comune.

Siamo dalle parti di Roy Batty e dei replicanti di Blade Runner, senza l’atmosfera noir e gli effetti speciali di allora, ma con un racconto che si gioca tutto sulla straordinaria messa in scena di Romanek, sulla felicissima scrittura di Alex Garland, sulle musiche di Rachel Portman e sull’interpretazione magnifica dei tre ragazzi: Andrew Gardield, Keira Knightley e Carey Mulligan, capaci di rendere tragici e immortali i tre meravigliosi protagonisti.

Il romanzo di Ishiguro ed il film di Romanek non intendono creare metafore opprimenti sul sistema educativo della nostra società, nè ragionare moralisticamente sulla clonazione.

Quello che interessa ad entrambi è raccontare una storia sulla brevità della nostra vita terrena, sull’intensità dei nostri sentimenti, sulla caducità di ogni passione. Una storia di uomini e di donne in cui l’elemento distopico e fantascientifico, serve solo ad enfatizzare e concentrare questi temi.

Difficile dire perchè un film così meraviglioso, una tragedia in tre atti così urgente e necessaria, non sia riuscita a trovare il suo pubblico.

Forse perchè l’idea che i protagonisti, una volta scoperta la propria natura, non si ribellino al proprio destino si sposa male con il principio profondamente americano del self made man, dell’uomo creatore della propria fortuna, alla ricerca costante di una seconda possibilità.

Si sentono invece le radici giapponesi di Ishiguro nel racconto di questa accettazione eroica della propria missione nella vita.

Anche il tono meditativo, gentile, senza scene madri e senza toni urlati, forse non ha facilitato il suo successo. Eppure si tratta di una qualità rara.

Romanek ha esplicitamente parlato del wabi-sabi, che nella cultura giapponese rappresenta la bellezza delle cose rotte, spezzate, imperfette. Il regista d’accordo con lo scenografo Mark Digby non ha voluto oggetti nuovi per il film: tutto doveva mostrare il peso del tempo e le sue ferite.

I tre attori principali sono straordinari, ma senza la meravigliosa interpretazione di Carey Mulligan il film non sarebbe stato lo stesso: le hanno già rubato letteralmente l’Oscar l’anno scorso per il suo ruolo in An Education e quest’anno qualcuna lo farà di nuovo.

Ma poco importa, la sua Kathy H. è un personaggio che resta scolpito nella memoria e nel cuore degli spettatori, capace di vivere per sempre. Nella sua rassegnazione, nella sua incapacità di esprime i propri sentimenti si sentono echi di un altro grande personaggio di Ishiguro, il maggiordomo di Quel che resta del giorno: entrambi testimoni di altre vite, entrambi malinconicamente consapevoli del loro ruolo e dell’impossibilità di qualsiasi ribellione.

 

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