Orphan **
Il terzo film dell’ebreo ungherese Laszlo Nemes comincia quattro anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando il piccolo Andor – nato durante il conflitto – viene riabbracciato dalla madre Klara dopo aver trascorso in orfanotrofio i suoi primi anni di vita.
Ritornati a Budapest nella casa di famiglia, madre e figlio attendono inutilmente per anni il ritorno di Hirsch, il marito deportato nei campi di sterminio.
Nel frattempo la repressione di stato ha vanificato le spinte libertarie della primavera precedente: Tamas, il fratello di Sari, la migliore amica di Andor, è costretto in clandestinità a nascondersi tra le rovine di un palazzo, cercando di evitare che la polizia politica lo trovi.
La madre di Sari e la madre di Andor lavorano entrambe in un negozio di alimentari gestito dal regime.
Di Hirsch non ci sono tracce, ma a casa di Andor si presenta invece un altro uomo, corpulento, a bordo di un sidecar. E’ Mihaly Berend, un macellaio con tanti agganci nel partito, che viene dalla provincia e che ha nascosto la madre di Andor durante la Guerra. Ora che la sua famiglia l’ha abbandonato vuole prendere in sposa la donna.
Mihaly dice anche di essere il padre di Andor, mettendo in crisi le certezze del ragazzino, che rifiuta categoricamente una verità che le bugie materne hanno reso insostenibile nel corso del tempo.
Il nuovo film di Nemes si muove ondivago in una città ancora devastata dalle scorie della guerra e da quelle molto più recenti della rivolta dell’anno precedente, sedata nel sangue dal regime comunista.
La grande storia si legge attraverso gli occhi di un ragazzino di tredici anni, il bravissimo e irrequieto Bojtorján Barábas. Il film sposa sino in fondo il suo punto di vista ed è pertanto parziale, spesso poco comprensibile e chiuso nelle invincibili convinzioni di chi non ha ancora compreso gli inganni della vita.
L’ostinazione con cui Andor rivendica le proprie origini ebree, la propria discendenza da un uomo che non ha mai conosciuto, se non attraverso i racconti della madre, è tanto ingenua quanto assoluta.
Il rifiuto dell’uomo che vuole crescerlo come figlio suo è altrettanto radicale e invincibile. Più Mihaly cerca di avvicinarsi ad Andor più quest’ultimo si allontana.
La distanza alla lunga resta tuttavia pretestuosa e immotivata. Questo perché i modi burberi, il carattere violento e le ambiguità morali di Mihaly sono al più raccontate e quasi mai mostrate.
Andor si è creato un’immagine paterna idealizzata, che non collima in nulla con il corpulento macellaio di provincia che si presenta una notte a casa sua.
L’irrequieto ragazzino non riesce a comprendere pienamente la pericolosità e i compromessi di chi è stato costretto a vivere sotto due diversi regimi, abbracciando un’idea della vita fatta di principi assoluti e di verità immutabili.
Il film è pedante fino allo sfinimento, richiede un’identificazione totale con il piccolo protagonista, anche quando la sua ottusità provoca conseguenze tragiche, richiede allo spettatore di accettare i suoi stessi pregiudizi e la sua radicalità etica.
Rispetto al capolavoro Il figlio di Saul e all’altrettanto coraggioso Sunset, mi pare un deciso passo indietro sia sotto il profilo narrativo, sia rispetto all’efficacia della messa in scena che Nemes aveva immaginato in precedenza.
Non basta la splendida e polverosa fotografia di Mátyás Erdély che trova il suo apice nella visita notturna al luna park, Orphan resta un lavoro contradittorio, che vuole essere troppe cose assieme e in cui l’afflato politico e ideale stride con il racconto particolare dell’emancipazione di Andor e in cui il suo desiderio di paternità non sembra riuscire a conciliare sogno e realtà.
Irrisolto.
