Cinque ragazze, cinque madri, cinque storie diverse.
Cinque bambini appena nati o in arrivo. E una casa rifugio dove ostetriche e psicologhe cercando di assisterle in un momento essenziale della loro vita.
Sono questi gli elementi chiave del nuovo bellissimo film di Luc e Jean-Pierre Dardenne, i due maestri belgi, capaci di rifondare e reinventare con La promesse e Rosetta il cinema del reale, proprio all’apice del postmoderno.
Dalla Quinzaine subito alla Palma d’Oro, assegnata dalla giuria di David Cronenberg nel 1999, poi una presenza ininterrotta in concorso, con un’altra Palma per L’enfant, il Grand Prix per Il ragazzo con la biciletta, il premio alla regia per Il giovane Ahmed, quello della sceneggiatura per Il silenzio di Lorna, il premio del 75mo anniversario per Tori e Lokita.
In questi trent’anni non è mancato nulla ai due maestri, che tornano per la decima volta con un film bruciante, elettrico, che sembra correre sul filo di una tensione inesausta, che abbraccia cinque vite chiamate a prendere decisioni troppo grandi per loro. Il pedinamento della realtà questa volta si molti plica per cinque e abbraccia Jessica, Perla, Julia, Namia, Ariane.
Sono ragazze madri, che hanno trovato accoglienza in una casa-famiglia dopo aver deciso di non abortire nonostante condizioni personali e familiari al limite, se non decisamente compromesse.
Una è in fuga dalla madre che vive con un uomo violento che le picchia entrambe e ha deciso di dare il piccolo in affido ad un’altra famiglia, per salvarlo dalla miseria morale e materiale della sua.
Un’altra è stata invece abbandonata dalla propria genitrice che non ne vuole sapere di lei, neppure quando diventa madre a sua volta.
Un’altra ancora è uscita dalla tossicodipendenza, ha un ragazzo che vorrebbe sposarla, ma neppure la prospettiva di trovare una casa con cui costruire una famiglia sembra salvarla dalle ricadute dalla dipendenza.
La quarta è stata abbandonata da tutti: sia da ragazzo che l’ha messa incinta, sia dalla sorella più grande che si è stancata di riparare i suoi disastri.
L’ultima dopo aver partorito ha trovato lavoro nelle ferrovie e la sua vita sembra ad una svolta.
Come sempre i due fratelli seguono le loro protagoniste con la macchina a mano, restituendo la loro ansia perenne, il loro continuo movimento, il loro bisogno di risposte, persino le loro forzature.
La povertà è la loro condanna. Una povertà che non è solo una questione banalmente economica, ma è soprattutto una povertà di diritti e di conoscenza, di risposte e di opportunità: ci sono donne incapaci di salvarsi dalla violenza e dall’abuso, di liberarsi dalle tentazioni dello sfruttamento, che cercano risposte che non avranno mai ad un vuoto che nessuno potrà riempire.
Le cinque madri, sono poco più che bambine. Dovrebbero essere figlie più che genitrici. Ma sono state costrette a crescere in fretta: la vita ha preteso la loro gioventù, le ha messe di fronte a scelte e sentimenti che non erano preparate ad affrontare.
Il film è attraversato da una tensione costante, che ci costringe a vederlo come in apnea, quasi senza respiro.
Al di là delle scelte personali delle cinque, forse giuste, forse sbagliate, emerge il consueto sguardo dei Dardenne, animato da una profonda compassione umana.
Il film si muove come un thriller d’assalto, senza mai speculare sulle cinque storie e sulle cinque protagoniste, limitandosi a raccontarle, senza forzature e senza compiacimenti.
Nessuna colonna sonora, fotografia impeccabile e mimetica di Benoît Dervaux.
Da non perdere.
P.S. A causa del black-out che ha interessato Cannes per molte ore dalla mattina del 24 maggio, la mia proiezione di Jeunes Mères si è interrotta dopo circa 85 minuti e non è più ripresa. La recensione è evidentemente il frutto di una visione parziale. Abbiamo scelto di pubblicarla ugualmente, nel quadro del reportage complessivo dal Festival di Cannes. La aggiorneremo in occasione dell’uscita nelle sale italiane del film, distribuito da Lucky Red.

