Alpha

Alpha **1/2

Al suo terzo film dopo il pregevole horror Raw e la Palma d’Oro più scioccante di questo secolo, Titane, Julia Ducournau torna in concorso a Cannes con un film che si allontana dai precedenti, più controllato, dolente, materico, immerso in quella tempesta di polvere rossa su cui si apre e si chiude.

Siamo nel 1990, in un passato distopico in cui una malattia che si trasmette col sangue, la saliva e i rapporti sessuali, trasforma progressivamente il corpo in fragile pietra, fino a stritolare qualsiasi respiro.

La tredicenne Alpha, di ritorno da una festa con altri compagni, si ritrova tatuata sul braccio una lettera scarlatta che mette subito in ansia la madre – significativamente senza nome – che è un medico impegnato a combattere ogni giorno da anni, nel suo ospedale, accanto ai pazienti di questo virus sconosciuto.

L’idea che Alpha possa essersi infettata è quella su cui si muove la prima metà del film, mentre improvvisamente nella vita delle due protagoniste riappare Amir, il fratello tossicodipendente della madre, che Alpha nemmeno riconosce, quando se lo ritrova in casa un pomeriggio.

Tra i compagni di scuola si diffonde la psicosi della malattia di Alpha e non bastano i primi esami negativi a ricomporre una situazione che vira presto nell’isteria collettiva.

Nel frattempo in un passato ancora precedente che interrompe e si insinua nel presente del film assistiamo alla progressiva agonia di Amir: la scoperta della malattia lo spinge a cercare il suicidio con un ultima dose, ma la sorella non riesce a lasciarlo andare e lo riporta in vita, fino ad assisterlo nei suoi ultimi momenti in reparto.

In quella che appare in modo evidente come una grande allegoria dell’HIV, Ducournau nata nel 1983, cerca di trovare la storia del suo film, forse al di là delle intenzioni originali.

Se il film si chiama Alpha e ruota a lungo attorno alla giovanissima ragazza e all’interrogativo legato al suo possibile contagio, poi progressivamente sceglie di privilegiare il rapporto tra i due fratelli e all’interno della loro grande famiglia di immigrati maghrebini, riconnettendo i due tempi narrativi del film e svelando i motivi della presenza duplice di Amir e la scelta della madre di farlo dormire, proprio nella stanza di Alpha.

Le premesse sono forse ingannevoli, perché alla piccola figlia tocca il ruolo testimoniale in questa storia. E’ sua la prima soggettiva sul braccio tumefatto e bucato dello zio e l’ultimo sguardo in macchina mentre la madre finalmente riesce a lasciar andare il suo dolore muto.

Alpha è costruito su una narrazione debole, frammentata, contraddittoria, si muove per tentativi, ipotesi e accumula una quantità esagerata di scene madri, spingendo il pedale del melò e urlando le sue tragedie quasi fino a perdere la voce.

In questo eccesso barocco Ducournau trova immagini di grandissima forza evocativa, a partire dall’idea della pietrificazione progressiva dei malati, che si sgretolano letteralmente perdendo la vita. Particolarmente efficace anche il racconto del contesto scolastico dove Alpha viene bullizzata continuamente, fino alla grandiosa scena della piscina che sembra uscire dallo stesso universo di Carrie, It Follows, Lasciami entrare, i grandi horror dell’adolescenza e della scoperta della sessualità.

Non meno inquietanti sono le scene con un Tahar Rahim spettrale, ridotto come lo zio Amir ad un fascio di nervi e ossa, incapace di darsi la morte, nonostante ci provi continuamente iniettandosi nelle vene esauste il suo veleno quotidiano.

Il film è per molti versi impressionante, cupissimo, disperato, capace di aggiungere continuamente nuove tracce narrative, che si perdono poi progressivamente, come quella che porta alla famiglia di Amir e della madre, alla medicina esoterica che vi si pratica, all’evocazione di demoni e altri elementi sovrannaturali. Non meno episodico e sfrangiato è il rapporto che lega Alpha ad uno dei suoi compagni di classe, segretamente innamorato di lei e deciso a rompere l’isolamento in cui è piombata la tredicenne dopo essersi ribellata alle sue aguzzine.

Come accadeva anche in Titane, Ducournau non riesce davvero a gestire e ordinare un film che le sfugge continuamente, limitandosi ad accumulare elementi diversi e tutti interessanti e sciogliendo nel finale solo uno dei tanti nodi, con la sovrapposizione dei due tempi narrativi che rivela il destino di Amir.

Il suo stile magniloquente, sempre a voce alta, disturbante e ansiogeno non è per tutti, tantomeno per chi ha pura degli aghi, ma al cuore di Alpha ci sono una commozione autentica, il senso di una perdita tanto inevitabile quanto inaccettabile, di un dolore continuamente urlato al mondo, per paura di quello che davvero significa per noi.

Golshifteh Farahani è il vero baricentro emotivo del film, di cui pian piano si appropria, disvelando la sua vera natura. Di un Rahim magnetico e disperato abbiamo detto e non saremmo stupiti di trovarlo nel palmarès finale, mentre più sfuocata appare Mélissa Boros nel ruolo di Alpha, ma il suo è il compito più pesante e ingrato: sarebbe stato eccessivo per chiunque.

Ducournau non ha paura di essere sgradevole, repellente e di chiedere al suo pubblico una fiducia che ripaga solo in parte, con la promessa di un racconto grande che in realtà è molto piccolo, intimo, personale: forse la presunzione e le ambizioni si sono ulteriormente alimentate dall’imprevedibile vittoria di quattro anni fa, ma il suo rimane un cinema fuori controllo e fuori scala, che forse non riusciremo davvero ad amare, ma che comincia ad acquisire un peso specifico che va al di là del coraggio e dell’emozione.

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