Die My Love

Die My Love *1/2

La scozzese Lynne Ramsay ritorna a Cannes dove tutti i suoi film cinque film hanno avuto il loro battesimo, a distanza di otto anni dall’ultimo A Beautiful Day – You Were Never Really Here.

Die My Love, il suo quinto lungometraggio in una carriera iniziata alla fine degli anni ’90, è l’adattamento dell’omonimo romanzo scritto da Ariana Harwicz, che racconta la progressiva e inesorabile discesa nella depressione e nella malattia mentale di una giovane madre, Grace, trasferitasi da New York nel Montana, per seguire l’amato Jackson.

I due vivono nella casa dello zio Frank, che ha abbandonato volontariamente questa Terra, e qui coltivano il loro sogno personale e familiare. Il tempo dell’amore selvaggio e passionale dura tuttavia lo spazio della gravidanza di Grace. La nascita di Harry cancella a poco a poco ogni spazio di autonomia e gli stessi obiettivi professionali della protagonista, una volta scrittrice ora impegnata a tempo pieno nella maternità, mentre Jackson lavora lontano quasi tutta la settimana.

I rapporti tra i due si fanno sempre più freddi, la routine di coppia annienta il desiderio e Grace mostra i primi segni di uno scompenso comune a molte donne, ma che in lei assume una forza particolarmente disturbante.

A nulla servono le avventure con un misterioso motociclista che abita vicino, così come l’aiuto della suocera Pam, rimasta nel frattempo vedova.

La solitudine di quella cabin in the woods in cui Grace rimane da sola con il suo bambino e un cane che sciaguratamente Jackson decide di regalarsi, la spinge verso il baratro.

A nulla serve un matrimonio tardivo e infelice, che si risolve nel ricovero psichiatrico di Grace, ormai completamente fuori controllo e pericolosa per se stessa.

Il film di Lynne Ramsay ripercorre temi e situazioni che il cinema ormai è stato capace di raccontare molte volte e non riesce mai davvero a giustificare la propria urgenza, per dirla con Godard.

La regista scozzese sembra obbedire ad un’ispirazione modesta, ad un copione risaputo che si limita a mettere in scena una discesa nell’oscurità, alterando un po’ i tempi e mescolando le scene, come se stessimo viaggiando all’interno della mente annebbiata di Grace, che per lampi e immagini ci mostra schegge della sua vita.

Jennifer Lawrence ripete pedissequamente il suo ruolo in mother! di Aronofsky e appare una scelta di casting troppo conservativa e in fondo sbagliata per il ruolo, nonostante la generosità manierista della sua interpretazione.

Pattinson è la solita inevitabile delusione nel ruolo imbelle e marginale di Jackson e si conferma micidiale nella sua capacità di scegliere sempre i film sbagliati.

Sissy Spacek si limita alla testimonianza di sé e di Lakeith Stanfield quasi non ci si accorge, se non fosse per un paio di primi piani senza il casco integrale, che porta quasi sempre.

Il film è inerte, borioso, inutilmente prolisso, immerso nella fotografia sovresposta di Seamus McGarvey, capace di illuminare di blu anche le lunghe notti di Grace, e girato nel solito formato stretto di 1,37:1 che sta diventando il nuovo fastidiosissimo vezzo cinefilo del momento.

Proprio quando gli schermi anche casalinghi si sono adeguati al formato orizzontale della sala, ecco che il cinema torna a restringersi in un formato angusto, abbandonato dagli anni ’50, certamente più adeguato ad un reel su Instagram, che alla proiezione in un teatro.

Il finale, afflitto da una CGI pessima, vorrebbe essere definitivo e simbolico, mancando completamente l’obiettivo.

Ancora una volta Ramsay cerca di raccontare personaggi dalla psiche devastata, disturbanti, oltremodo fragili: tuttavia Die, My Love nell’esplorare l’inferno della maternità suona decisamente fasullo, superficiale. Non è ammazzandoci di noia che troveremo più empatica una coppia improbabile e infantile come quella formata da Grace e Jackson.

Velleitario.

Primo film distribuito in sala da MUBI in Italia.

E tu, cosa ne pensi?

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.