Quasi vent’anni fa il giovanissimo regista gallese Gareth Evans con alle spalle solo un pugno di cortometraggi e il misconosciuto esordio con Footsteps, viene assunto per dirigere un documentario sul Pencak Silat, l’arte marziale indonesiana. Lavorando a quel progetto conosce Iko Uwais uno dei maestri della disciplina, costretto a sbarcare il lunario come fattorino. I due girano assieme Merantau e il dittico di The Raid che diventano immediatamente oggetti di culto per tutti gli appassionati, lanciando Uwais nell’olimpo delle star d’azione.
Nel 2018 Evans si dedica per Netflix all’horror sovrannaturale Apostolo, una lenta e ieratica discesa verso il Male.
Poi un lungo silenzio rotto solamente dalla notevole prima stagione della serie Gangs of London.
In realtà Havoc viene girato per Netflix nell’estate del 2021 in Galles. Cosa accade nei successivi quattro anni è un piccolo mistero. Evans ammette la necessità di rigirare alcune scene e il coinvolgimento di Scott Frank (La regina degli Scacchi, Out of Sight Minority Report, Logan) e John Lee Hancock (Un mondo perfetto, The Founder, Mr. Harrigan’s Phone) in fase di riscrittura: lo sciopero degli attori e i conflitti nelle disponibilità del cast hanno portato a continui rinvii sino all’inizio del 2025.
Quello che vediamo ora sul piccolo schermo televisivo è un poliziesco ipercinetico e iperviolento, che ci ricorda il talento coreografico di Evans e la sua creatività nelle lunghe scene di battaglia urbana, un ritorno alle origini furioso e scioccante che conferma anche un’ impasse narrativa che risolve nei cliché di genere più usurati ogni possibile dinamica tra i personaggi.
Quando una banda di giovanissimi criminali, guidati da Charlie e Mia, ruba un carico di lavatrici che contengono cocaina per conto del giovane boss Tsui, non sa di essere finita in mezzo ad una sanguinosa faida di potere fra triadi.
All’incontro per la consegna del carico, tre “demoni” mascherati con caschi da hockey fanno fuori Tsui e tutti i suoi uomini, facendo ricadere la colpa proprio sui due ragazzi ora in fuga.
Charlie però è il figlio di un costruttore e politico in vista, Lawrence Beaumont, che comprende la situazione e si rivolge a Walker, un poliziotto corrotto che ha lavorato per lui in passato, perché ritrovi il suo ragazzo e lo protegga dalla vendetta della madre di Tsui.
Walker ha una vita familiare complicata, ha lasciato la narcotici per la omicidi dopo l’ennesimo affare losco con un gruppo di colleghi e ha una nuova partner, Ellie, una recluta ancora in divisa.
Ma chi ha davvero ucciso Tsui e perché?
Sia pure orchestrando una storia piena di sottotrame e tradimenti, il plot si riduce all’osso di due personaggi che fuggono e altri che li cercano per vendicarsi. Evans si affida al Walker di Tom Hardy come al suo Virgilio, in questa avventura tutta notturna in cui il sole non sorge mai, si muore molto e si muore male, crivellati dai colpi di fucili d’assalto, squarciati da mannaie e altre armi di fortuna, finiti a calci e colpi proibiti.
Come detto gli stereotipi di genere sono tutti convocati: il poliziotto corrotto e pentito che trascura la famiglia ma che ha un suo codice morale e cerca di raddrizzare la sua vita, la recluta sveglia che impara presto le regole d’ingaggio, i colleghi avidi e criminali della narcotici, il politico affarista con il figlio degenere, i boss di secondo livello che si sentono scavalcati dal nepotismo dei capi e tramano alle loro spalle, la madre vendicativa.
In termini di scrittura drammatica Havoc non aggiunge nulla ad una lunga tradizione poliziesca, configurandosi a tutti gli effetti come un b-movie, uno straight-to-platform in cui tutto è estremo ed esagerato.
Poi però ci sono i non pochi momenti di pura azione in cui Evans si ricorda di essere un superbo regista di seconda unità, capace di orchestrare traiettorie di sguardo sempre nuove in cui la tensione è un continuo assalto ai sensi, un crescendo parossistico fatto di inseguimenti d’auto notturni originalissimi, rumble in discoteca che sembrano non finire mai con scambi di colpi sempre diversi e un assalto finale alla più classica delle cabin in the woods di cui non rimane che uno scheletro, crivellato di infiniti colpi.
Nel caos di corpi e colpi (l’havoc del titolo) il regista si trova perfettamente a suo agio, riesce a rendere tutto chiaro e intellegibile, con una maestria che è ormai proverbiale.
Evans sembra dire a tanto “cinema degli stunt” – da John Wick in giù – che lui può fare le stesse cose al doppio della velocità e con un numero pressoché infinito di attori in scena senza mai perdere forza, rigore ed equilibrio. Una lezione stupefacente di iperrealismo grafico, a cui forse manca solo un po’ di ironia, sostituita da una nota melodrammatica che suona di troppo.
Peccato che al netto di queste tre incredibili scene madri che segnano i tre atti del film e di un paio di altri assalti notevoli – in particolare l’esecuzione del testimone in ospedale – il resto si alimenti di frasi smozzicate, situazioni arcinote e personaggi a due dimensioni, senza passato e senza futuro.
Come direbbero gli amici de i 400 calci Havoc è “cinema di menare”.
Prendere o lasciare.

