Ispirato al Nosferatu che Willem Murnau girò nel 1922 all’apice dell’Espressionismo tedesco, da una sceneggiatura di Henrik Galeen che plagiava spudoratamente il Dracula di Bram Stoker, il nuovo film di Robert Eggers rinnova e ibrida la leggenda del vampiro con suggestioni contemporanee, cercando di rimanere fedele al capolavoro originale, ma contaminandone la leggenda.
Il regista ha fatto riferimento, in modo esplicito ma non meno antifrastico, alla coppia Merchant-Ivory e a Sussurri e grida di Bergman, come a Suspense di Clayton, tutti film in cui la dimensione metafisica e psicologica è centrale almeno quanto il contesto sociale, ma è evidente che possiamo ritrovare elementi che richiamano gli horror della Hammer come quelli di Corman e la lunga tradizione dei vampiri, con particolare predilezione per gli strigoi romeni.
Fin dal suo esordio Eggers è stato catalogato come uno degli esponenti più in vista di quella corrente chiamata elevated horror o prestige horror: la definizione di Kristin Thompson è controversa e respinta da molti cinefili – finendo per abbracciare sovente non solo registi come Ari Aster, David Robert Mitchell, Jordan Peele, Jennifer Kent o la stessa Julia Ducournau, ma anche le incursioni nel genere di Alex Garland, Luca Guadagnino, Ben Wheatley o Nicolas Winding Refn – eppure identifica con una certa approssimazione chi avrebbe tentato di ibridare con pratiche e ambizioni autoriali, il più negletto dei generi classici.
Tuttavia come accaduto spesso anche agli altri, le maglie della definizione risultano subito un po’ troppo strette ed Eggers già con il kammerspiel alla Losey nel faro di The Lighthouse e poi con la mitologia norrena di The Northman, sembra allontanarsi repentinamente dal folklore gotico di The Witch.
La sfida con il personaggio forgiato da Murnau, lo porta ora a confrontarsi non solo con una lunghissima tradizione culturale europea, ma anche con le radici più profonde del cinema dell’orrore.
L’ambientazione resta la Germania del 1838: nella piccola città di Wisborg vivono la giovane Ellen e il marito Thomas Hutter, che lavora senza sicurezze per lo studio immobiliare del sinistro Brock.
Quando quest’ultimo lo invia nei Carpazi dal Conte Orlock, interessato ad acquistare una proprietà in rovina proprio a Wisborg, per Thomas è l’occasione di provare le sue qualità e di conquistare un posto più sicuro, che l’aiuti a sostenere la sua famiglia e a restituire il prestito avuto dall’amico Harding.
Ellen vive notti agitate sin da piccola, incontrando nei sogni un misterioso e animalesco demone, che le dona il potere di anticipare il futuro: vede così il pericolo mortale che attende il marito.
Il viaggio in Transilvania diventa una lenta discesa nell’incubo per il giovane avvocato: un gruppo di gitani lo mette in guardia inutilmente, un rituale con giovani vergini e paletti d’acciaio piantati nel cuore di uomini apparentemente defunti non è sufficiente. L’incontro con il Conte Orlok avviene di notte, in un castello fatiscente a cui accede su una carrozza senza guida.
Nel frattempo a Wisborg, le condizioni di Ellen si aggravano, la notte sembra posseduta e in preda a spasmi e visioni demoniache. Harding e il dott. Sievers convocano al suo capezzale il Prof. Franz, emarginato dal mondo accademico per i suoi studi sull’occulto. Franz tuttavia è l’unico che riesce a vedere quello che gli altri attribuiscono a malinconia o ai nervi e che curano con l’etere o la costrizione forzata: “He’s coming“.
Il film di Eggers vuole indagare l’oscurità del Male, recuperando la versione più radicale del vampiro cinematografico. Eppure nel suo film si legge chiaramente l’influenza del Dracula di Coppola e mano a mano che il racconto si insinua nell’inconscio di Ellen e di Thomas si allontana sempre di più dall’idea originale di Murnau.
Nosferatu è qui un’incarnazione indicibile del desiderio femminile, della sua potenza e della sua vergogna, da nascondere nel profondo della notte. Il rapporto tra Ellen e Orlok è di attrazione e repulsione al tempo stesso, l’orrore nasce da un sentimento intimo e personale, che si manifesta esteriormente nelle forme inedite di questo demone baffuto.
Il prologo tuttavia è l’unico momento del film realmente impressionante. Nell’incontro notturno animalesco e irresistibile c’è tutta l’essenzialità feroce e perturbante che poi latita nel resto del film.
Eggers si spinge ancora un passo oltre Coppola: se il Dracula del 1992 esplicitava il coté romantico del vampiro nel suo abbraccio eterno con Mina, attraverso i secoli, qui Nosferatu è una proiezione esplicita del desiderio sessuale.
Non è un caso allora se il finale renda ancor più manifesta questa allegoria, unendo i due amanti in un abbraccio finale scabroso.
Più fedele a Murnau rimane invece Eggers nel raccontare l’arrivo di Orlok a Wisborg come una piaga che si diffonde epidemicamente e infesta la città trasportata da ratti famelici. Ma sia il viaggio in mare sia l’esorcismo interrotto che libera Thomas vengono sacrificati sullo schermo in favore di nuove sototrame e nuovi personaggi come quello interpretato da Willem Dafoe.
Tuttavia il suo film, come già The Lighthouse e The Northman, sembra una versione for dummies del capolavoro originario e di quelli che l’hanno seguito nel corso dell’ultimo secolo: tutto è urlato, a partire dalla colonna sonora tonitruante di Robin Carolan, passando per una serie di puerili jump scare, per arrivare alla dimensione metaforica del racconto che è qui sottolineata molte volte, con simbolismi così grevi da non lasciare adito a dubbi.
Immerso in una luce bluastra che vorrebbe evocare il chiaro di luna, dal direttore della fotografia Jarin Blaschke, il film di Eggers spreca anche qualche buona idea pittorica, soprattutto nella parte del viaggio Carpazi: la preoccupazione maggiore del regista sembra quella di farci vedere quanto è levigato e lustro il suo immaginario, quanto magnifiche sono le sue scenografie, quanto impeccabili le sue inquadrature, che richiamano suggestioni fiamminghe.
La sceneggiatura è solenne fino alla pomposità, i dialoghi alternano seriosità e mistero, solo che il cast chiamato ad interpretarle è piuttosto acerbo e impalpabile, a cominciare da Lily Rose Depp, davvero troppo fragile per sostenere un ruolo che è folgorante e promettente solo nell’incipit.
Quanto a Bill Skarsgaard, nascosto da un trucco pesantissimo, appare piuttosto opaco e molto distante dall’immagine essenziale creata per il vampiro da Max Schreck un secolo fa e la cosa più curiosa è che i foltissimi baffi coprono del tutto i denti aguzzi, uno degli elementi essenziali della mitologia del personaggio.
Pur avendola occultata nel corso della campagna di marketing e per gran parte del film, l’immagine del nuovo Orlok è assai meno spaventosa e sinistra dell’originale, anzi appare decisamente buffa.
Al quarto lungometraggio l’entusiasmo suscitato da The Witch dieci anni fa è del tutto scemato. I film di Eggers mi paiono decisamente midcult, buoni forse per chi ha la memoria cortissima e scambia la bella carta con il regalo che contiene.
Le sue qualità di storyteller latitano anche questa volta, mentre l’imponente confezione distrae e trae in inganno. E lascia nell’ombra anche qualche tentativo di critica sociale, nel confronto tra gli aristocratici Harding e i piccolo borghesi Hutter, costretti a separarsi per inseguire chimere lavorative e ancora senza prole.
Eggers non si sporca mai le davvero mani con il cinema di genere, se non per qualche brutale attacco ai sensi dello spettatore, che lo risveglia dal ritmo soporifero del film: il suo vuole essere pienamente cinema d’autore con un messaggio importante, non vi sbagliate!
Dietro i costumi di muta bellezza e un formalismo esibito sino allo sfinimento nei 135 minuti del film, non resta molto.
Un’altra occasione sprecata.
Dal 1 gennaio in Italia.

