30 Rockefeller Plaza, New York. Sono le ventidue dell’11 ottobre 1975 e Lorne Michaels, un giovane produttore canadese, a cui la NBC ha affidato la nascita di un nuovo programma comico nella notte del sabato sera, attende nervosamente in strada l’arrivo di Andy Kaufman, uno degli stand up del programma, che sarebbe andato in onda novanta minuti dopo.
La NBC aveva in corso una disputa con Johnny Carson sulle repliche del suo celebre Late Show e l’incarico a Michaels serviva come parte della strategia del network. Nessuno immaginava che il Saturday Night avrebbe avuto un futuro, nè che sarebbe davvero andato in onda live dalla storica sede del network.
Lo studio, i camerini, la writers’room, la sala regia, i corridoi: in ogni angolo ritroviamo i personaggi di questa storia, dal cast originale di quella prima memorabile stagione agli scrittori degli sketch, da Billy Preston primo ospite musicale a Jim Henson dei Muppets, anche lui coinvolto nella prima puntata, fino ai tecnici e ai produttori del network e agli associati regioni che lo avrebbero dovuto trasmettere in tutta america. Il film di Jason Reitman ci accompagna in un tour de force con Michaels nei momenti febbrili che hanno preceduto la messa in onda dello show.
Emergono così le tensioni tra gli stand-up, gli sberleffi alla censura, le insicurezze dello stesso Michaels e il rapporto con Rosie Shuster, sceneggiatrice prim’ancora che moglie, il ruolo di Dick Ebersol, vicepresidente dei programmi serali e poi a lungo produttore dello show negli anni ’80.
Lo spirito iconoclasta dei talenti coinvolti è uno degli ultimi figli della controcultura, dello spirito libertario e scanzonato degli anni ’70, ma anche della sua dimensione politica: Nixon si era dimesso da poco più di un anno e le battute sulla politica sono sempre state al centro degli sketch della trasmissione.
Jason Reitman e Gil Kenan hanno scritto un film che sembra figlio del cinema corale di Robert Altman, almeno quanto del ritmo nevrotico dei dialoghi di Aaron Sorkin. In continuo movimento, la macchina da presa pedina i personaggi, ruba scampoli e frasi, lega fili invisibili, anticipa quello che sarà e poi ogni tanto si concede qualche sosta poetica, come nella scena con Belushi vestito da ape sulla pista di pattinaggio, una delle pochissime girate fuori dagli studi televisivi.
Il racconto degli ultimi novanta minuti prima della messa in onda del programma funziona come un countdown implacabile verso quello che sarà, un dietro le quinte lanciato alla velocità di un colpo sparato nel vuoto.
Reitman nel corso dell’ultimo decennio ha perso la centralità che aveva conquistato nel panorama del cinema americano del nuovo secolo grazie l’originalità dei suoi primi film – Thank You For Smoking, Juno, Tra le nuvole.
Pian piano è finito in una sorta di cono d’ombra e anche i suoi film migliori – Young Adult, Tully, The Front Runner – non sono più riusciti a ritrovare una sintonia con il pubblico americano, eppure restano testimonianze autentiche di un percorso molto meno conciliante di quanto potremmo immaginare, che nella sgradevolezza di personaggi e situazioni ha cercato una chiave per interpretare idiosincrasie, miserie e ruoli del nostro contemporaneo.
Con Ghostbusters: Legacy il tentativo di arruffianarsi di nuovo i favori del pubblico con un film di puro fan service, ma anche di inutile nostalgia per un cinema e un immaginario che non c’è più sembrava il primo autentico passo falso della sua carriera.
Saturday Night potrebbe sembrare muoversi sulle stesse coordinate, come un nuovo omaggio al padre Ivan che, come regista e produttore, ha costruito per quella stessa generazione di comici – John Belushi, Bill Murray, Dan Aykroyd, Harold Ramis, John Candy – una popolarità nuova, lontana dal piccolo schermo.

Tuttavia il film, che negli Stati Uniti ha sinora raccolto appena 7,5 milioni di dollari e in Italia esce solo come evento speciale per tre giorni, ha invece uno spirito autenticamente iconoclasta, lontano da ogni agiografia, recuperando – in un momento culturalmente miserabile della storia americana – un tempo perduto in cui tutto sembrava lecito e possibile, in cui il talento surreale, sboccato, liberatorio aveva ancora la forza di imporsi nello spazio ammuffito della televisione di quel tempo.
E’ emblematica la scena in cui Michaels, in cerca di un tecnico delle luci, lo ruba letteralmente dal set di un vecchio show di varietà con Milton Berle, in cui la vecchia star ammicca alla telecamera, ma i tecnici che lo osservano sembrano immersi in un sonno catatonico: è l’epifania che serve al protagonista per avere la conferma che la rivoluzione immaginata è possibile, trascinando un pubblico televisivo nuovo in quella che avrebbe voluto essere l’equivalente di una scatenata notte in città.
Il casting curato da John Papsidera (Dunkirk, Oppenheimer, Yellowstone) mette assieme una serie di giovani talenti impressionante: Michaels ha il volto di Gabriel LaBelle che già interpretava il giovane Spielberg in The Fabelmans, Rachel Sennott (Shiva Baby, The Idol) interpreta la moglie, Cooper Hoffman (Licorice Pizza) è il produttore Dick Ebersol, Belushi e Aykroyd sono interpretati da Matt Wood e Dylan O’Brien (Love & Monsters), mentre il compiaciutissimo Chevy Chase ha il volto sinistro di Corey Michael Smith (Gotham, May December, First Man) e Kaia Gerber (Babylon, AHS 13) interpreta la moglie Jaqueline Carlin. A Nicholas Braun di Succession toccano i due personaggi lunari, Jim Henson e Andy Kaufman, mentre lo sceneggiatore Michael O’Donoghue è interpretato da Tommy Dewey e l’indimenticabile Gilda Radner ha il volto di Ella Hunt (Horizon)
Jon Batiste si occupa della colonna sonora e anche del cameo di Billy Preston.
Chiudono il cast J.K.Simmons nel ruolo del maturo womanizer Milton Berle, Matthew Rhys in quello dello sboccato e cocainomane George Carlin, il primo presentatore del SNL, e il sempre formidabile Willem Dafoe nei panni del mefistofelico Dave Tebet della NBC, l’uomo che deciderà all’ultimo secondo se lanciare l’ennesima replica del programma di Johnny Carson o andare in diretta con i ragazzacci del Saturday Night.
La fotografia in 16mm di Eric Steelberg restituisce al film il look tipico del cinema indie di quegli anni, la sua urgenza, la sua immediatezza.
Il film si muove veloce, costantemente di corsa, come quel pugno di giovani incoscienti che sembrano voler sovvertire tutto con la leggerezza di una battuta.

