House of Dragon 2: una stagione più cupa e crudele nel raccontare l’orrore della guerra

House of Dragon 2 ***

La seconda stagione della serie HBO sulle lotte per la successione a Viserys I Targaryen, ambientata nell’universo fantastico creato da G.R.R. Martin circa due secoli prima degli eventi narrati in Game of Thrones, riparte dalle prevedibili conseguenze della morte del principe Lucerys a opera del potente drago Vhagar, cavalcato dal principe Aemond.  Prima di questo drammatico incidente, nei cuori dei più albergava la speranza di poter ricucire la rottura tra la fazione dei Verdi, stretta attorno ad Aegon II (Tom Glynn-Carney) ad Approdo del Re, e quella dei neri, a Roccia del Drago, dove Rhaenyra (Emma d’Arcy) ha riunito la sua corte. La drammatica scomparsa di Lucerys spinge invece verso la guerra, resa inevitabile a seguito della scomposta risposta ordita dal principe Daemon (Matt Smith), che assolda due assassini con il compito di uccidere Aemond (Ewann Mitchell) nel sonno. Non solo l’azione non ha successo, ma la loro stupidità ha come conseguenza la drammatica decapitazione di Jaehaerys (Tom Glynn-Carney), figlio di Aegon II ed erede al trono, ancora un bambino. Una tragedia che i verdi, i Targaryen-Hightower, vogliono sfruttare, presentando al popolo Rhaenyra come un mostro crudele e sperando che il disappunto popolare porti qualche casata a decidere di abbandonare la sua causa. I neri sono feriti e divisi: un litigio tra Rhaenyra e il marito Daemon porta quest’ultimo ad allontanarsi, cercando di conquistare l’appoggio delle Terre dei fiumi, facendo sosta ad Harrenhal, il castello maledetto che finisce per minare il suo già fragile equilibrio psicologico, spingendolo alle soglie della pazzia e aumentando in lui il senso di superiorità nei confronti della moglie. Nel frattempo anche la fazione dei verdi è divisa al suo interno sulle strategie da adottare. Aegon II  è assetato di vendetta e sceglie di rimuovere il nonno dalla carica di Primo cavaliere: l’esperto Otto Hightower (Rhys Ifans) viene infatti giudicato troppo morbido nei confronti del nemico. La spirale di odio e violenza sembra inarrestabile e tutti coloro che vi si oppongono finiscono per essere spazzati via o emarginati, senza riguardo per alcun rapporto di parentela o di amicizia, presente o passata. E’ questo apparentemente il destino della Regina vedova, Alicent Hightower (Olivia Cooke), che ha gestito il regno facendo le veci del marito Viserys nei momenti più acuti della sua malattia. Il centro dell’azione, decisivo per la conquista del successo, sono le Terre dei fiumi, una zona piena di feudatari in perenne conflitto tra  di loro e che solo la casata dei Tully sembra tenere uniti: il suo appoggio è quindi una delle priorità per sperare di vincere la guerra.

In questa seconda stagione di House of the Dragon assistiamo ad un rimescolamento del mix di ingredienti che hanno fatto la fortuna dei libri di Martin e delle serie TV ad essi ispirate: più violenza, meno sesso esplicito, più politica, meno avventura, più guerra, meno addestramento, più stregoneria, meno storia delle casate. Potremmo aggiungere anche meno introspezione, ma questo non vale per il carattere di Daemon che ad Harrenhal attraversa un universo di sfumature psicologiche tutt’altro che banale. Ci sono quindi tutti gli elementi che hanno da sempre contraddistinto il mondo degli eroi di Martin, quello che cambia è, per così dire, la loro percentuale. La differenza si percepisce e ci consente di superare presto la sensazione iniziale di esserci impantanati nel già visto. Con il passare degli episodi infatti si accresce la componente cupa, la violenza e il buio, così la stagione decolla, portando lo spettatore ad immergersi in un mondo emotivamente coinvolgente. Più delle scene di battaglia e delle ricostruzioni ambientali, questa stagione verrà ricordata per la notte dell’anima attraversata da Daemon ad Harrenhal, un luogo mai così lugubre ed affascinante.

Dal punto di vista tecnico emerge la qualità degli effetti speciali, delle ricostruzioni sceniche e dei costumi, con una citazione particolare per le folte acconciature dei Targaryen, famosi per i loro splendidi capelli argentei. La fotografia interpreta al meglio il tono cupo e nevrotico della vicenda, mentre la regia utilizza spesso una prospettiva a piombo e riprese dall’alto, per rendere al meglio il tono epico delle scene di guerra. Ci sono poi le performance di tutti gli interpreti, quelli reali e quelli … virtuali, cioè i draghi: il lavoro dei tecnici nel renderli uno diverso dall’altro, non solo a livello visivo, ma anche uditivo, definendo in modo univoco i versi che emettono è impressionante. A voler trovare un difetto, forse la sceneggiatura manca di un po’ di leggerezza nei rapporti tra i personaggi, scegliendo un canone alto che alla lunga suona eccessivo e quindi nuoce alla negoziazione,  portando qualche critico a parlare di “soap opera con i draghi”. Il punto focale a nostro avviso è ancora una volta l’amalgama delle diversi componenti: il lavoro di squadra, per dirla in termini olimpici. Non troviamo eccellenze slegate o in competizione per primeggiare, ma tutte si inseriscono in un ordito (come quello della  splendida sigla introduttiva) elaborato in modo omogeneo dallo showrunner Ryan J. Condal.

A livello tematico, la spirale narrativa cerca di ri-avvolgersi, introducendo il tema della disponibilità a trattare, del desiderio di pace che alberga ancora in qualche cuore e in poche menti. Un desiderio che però si scontra con l’istinto diffuso di vendetta e la sete cieca di potere. I rapporti all’interno delle famiglie, soprattutto della Famiglia, i Targaryen, sono subordinati al potere e questo preclude la possibilità di assistere a discorsi veri e profondi su un tema come la genitorialità. La differenza con le famiglie de Il trono di spade appare evidente: là c’era una complessità che andava oltre alle questioni di potere, pur non negandole. Qui invece tutti gli intrecci finiscono per soccombere di fronte al desiderio di potere. La descrizione di una famiglia anaffettiva è pur sempre la descrizione di una famiglia, innegabile, ma se il collante è solo il potere, questo crea naturalmente poca immedesimazione, poca negoziazione da parte della maggior parte del pubblico che non si riconosce (per fortuna) in queste coordinate. Più facile riconoscersi nelle baruffe della famiglia Greyjoy o anche nel concetto di famiglia allargata degli Stark che nell’anaffettività dei Targaryen. Qui i rapporti sono sempre volti all’interesse: ad esempio l’assenza del marito non è quella di un compagno o di un padre, ma solo di un alleato utile per la guerra. La mancanza quasi assoluta della dimensione intima, familiare nel senso profondo del termine, è parzialmente compensata dalla vicenda di Rhaenys, la Regina che non fu e dalla dedizione che ha per lei il marito, Il Serpente di Mare o dall’affetto rispettoso  di Alicent per il defunto sovrano; stiamo comunque parlando di eccezioni, in un contesto in cui le dinamiche familiari appaiono stereotipate in negativo. Questa mancanza di approfondimento familiare potrebbe apparentemente limitare i personaggi femminili. La maternità è uno dei tratti salienti delle donne che hanno avuto un ruolo determinante in Game of Thrones, come Cercei Lannister o come Kathleen Tully. Qui invece gioca un ruolo meno viscerale, con un impatto non sminuito, ma trattenuto. Le donne portano il peso del reame, della famiglia, della casata, dei cittadini: portano con sé, dentro di sé emozioni e sentimenti che non palesano completamente e che al contempo  non controllano del tutto. Sono forse i personaggi femminili più completi finora visti nelle rappresentazioni dell’universo narrativo di Martin. La loro forza, la loro resilienza, il loro saper portare pesi è qualcosa di eroico che ridicolizza l’arrendevolezza con cui gran parte degli uomini che le circonda cede ai propri impulsi, soprattutto a quelli che portano alla violenza e alla guerra.

La violenza la fa da padrona, lasciando agli spettatori la sensazione che non ci siano limiti alla crudeltà che avvolge l’universo. L’indugiare sui cadaveri dei soldati, sui corpi dei civili e sulle condizioni di povertà in cui vive la popolazione di Approdo del Re racconta tutta l’atrocità della guerra, specie per i più semplici, i cittadini, gli uomini comuni. Allo stesso modo i draghi rappresentano una metafora delle moderne armi di distruzione di massa, in grado di distruggere popolazioni e regioni. Lo show di Ryan Condal è consapevole di questo valore simbolico e di come la storia incontri e rappresenti le pulsioni e i timori della nostra società, sempre più scossa da tensioni e percorsa da conflitti. Che si tratti di medioevo fantastico o di mondo contemporaneo, l’orrore della guerra è lo stesso.  La speranza è che almeno nel mondo reale ci sia più buon senso.

TITOLO ORIGINALE: House of The Dragon

DURATA MEDIA DEGLI EPISODI: 57 minuti

NUMERO DEGLI EPISODI:  8

DISTRIBUZIONE STREAMING: Sky Atlantic

GENERE: Fantasy, Sword & Sorcery, Action, Epic, Drama

CONSIGLIATO: a tutti gli amanti di quel mix tra tempi lunghi e improvvisi colpi di scena che ha rappresentato per anni il marchio di fabbrica di Game of Thrones.

SCONSIGLIATO: a quanti non vogliono immergersi in un mondo violento e brutale, dove i colpi di scena sono dietro l’angolo e nessuno dei protagonisti può dirsi al sicuro.

VISIONI PARALLELE: come House of The Dragon c’è solo Game of Thrones, difficile fare altri paragoni. Può valere la pena leggere le rispettive versioni cartacee, che forniscono una diversa prospettiva della materia narrata. Nel caso specifico, Blood and Fire (ed. Mondadori), da cui è stata tratta la serie, non si presenta come un romanzo, quanto piuttosto come una cronaca medioevale con diverse versioni/racconti del medesimo evento. E’ un compendio di episodi e personaggi che per alcuni aspetti ha la stessa funzione de Il Silmarillion all’interno del mondo narrativo di Tolkien.

UN’IMMAGINE: l’immagine iconica con cui è stata lanciata questa seconda stagione e cioè Daemon e Rhaenyra che appoggiano l’uno la fronte sull’altra, nella stessa posa che avevano assunto il giorno del loro matrimonio. Qualcosa è però cambiato: i colori scuri dei loro vestiti, la scarsa luminosità dello sfondo, rischiarato solo da una fiamma lontana, il tono sommesso della coppia: è il lutto al centro di questa conversazione emotiva tra marito e moglie. Uno splendido manifesto dei contenuti della stagione.

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