Il nuovo quinto film di Andrew Haigh è tratto dal romanzo omonimo di Taichi Yamada, già portato una prima volta sullo schermo negli anni ’80.
L’adattamento trasporta la storia in una assolata estate londinese, all’interno di un nuovo condominio ancora praticamente vuoto. Qui vive Adam, uno sceneggiatore che sta cercando lo spunto per un nuovo copione nella propria storia familiare.
Una sera si presenta alla sua porta l’unico altro essere umano che pare abitare quel non-luogo silenzioso: si tratta di Harry, un ragazzo più giovane di lui, visibilmente ubriaco, con una bottiglia di Whiskey in mano e una proposta che Adam, intimidito, rifiuta bruscamente, richiudendosi quella porta alle sua spalle.
Nei giorni successivi si recherà in provincia, nella casa abitata da bambino, incontrerà più volte i genitori perduti per un incidente stradale a dodici anni, raccontandogli la sua vita di adulto e confessandogli la sua omosessualità.
Nel frattempo stringe con Harry una storia fatta di poche parole e tanti vuoti.
Realtà, sogno, immaginazione, illusione: impossibile comprendere, sino al tragico epilogo, i confini di quello a cui stiamo assistendo.
Haigh ci immerge in un unico flusso di ricordi e proiezioni, fra un passato idealizzato e rivissuto, un presente negato e un futuro impossibile. Se ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, Estranei può esserne il manifesto.
Nella misura struggente del rimpianto il film muove i suoi personaggi attraverso il tempo e lo spazio, perchè capiscano quanto il prendersi cura dell’altro sia forse l’unica risposta sensata al dolore e alla solitudine.
Tuttavia questo Estranei risptto a 45 anni e Weekend è un film troppo chiuso attorno al suo protagonista, ai suoi sensi di colpa, alla sua sessualità subita come una vergogna. In fondo incapace di vivere pienamente la propria maturità affettiva e sentimentale, si rifugia in un mondo che non esiste se non nella sua mente.
I dialoghi continui con i genitori eternamente giovani eppure lontani sono tutti segnati da una commozione pietosa che stringe il film come una morsa da cui non riesce più a liberarsi. Il protagonista sembra finalmente confrontarsi con le sue paure, con il trauma familiare che ha segnato la sua vita, con la sua esistenza da monade solitaria, piegata sul proprio computer a cercare di dare una forma alle idee.
Si vede Estranei con l’occhio perennemente lucido, perchè la scelta di Haigh è quella di affidarsi interamente alle corde del cuore, ad un portato emotivo che finisce per travolgere ogni cosa, senza preoccuparsi di dosare il melodramma familiare, quello identitario e la storia d’amore del presente che dovrebbe rappresentare la pacificazione del protagonista con il rimosso del suo passato.
Andrew Scott ha il ruolo più complesso, quello del testimone, mentre a Paul Mescal tocca il ruolo dello sconosciuto, pericoloso e miserabile, affascinante e perduto: non sapremo quasi nulla di lui, perchè è in fondo un’altra proiezione idealizzata del microcosmo di Adam.
E se i quattro interpreti trovano in questa lunga teoria di confessioni, riconciliazioni e lutti, lo spazio e il respiro drammatico per brillare, è alla coppia dei genitori immaginati, Jamie Bell e Claire Foy, che Haigh si affida per mostrare come sia cambiata – almeno un po’ – la percezione dell’omosessualità nel corso degli ultimi 40 anni e come lo stesso rapporto genitoriale vada spogliato dei non detti e dell’idealizzazione dell’infanzia.
Immerso nella luce calda e crepitante del 35mm di Jamie Ramsay, il film usa il pop degli anni ’80 in modo perfettamente integrato con il racconto, facendone parte di una memoria recuperata, che torna a vibrare immediatamente proprio grazie alla sintesi musicale.
Haigh continua a fare cinema incandescente, ad una temperatura emotiva per molti inarrivabile. Gli si perdonano così anche gli eccessi e qualche simbolismo inutile, in un film già carico di altri segni.
In Italia dal 29 febbraio.

