Dopo una lunga parentesi televisiva nella quale ha creato la sua fortuna e messo il suo nome nella mappa di Hollywood con Mr.Robot e Homecoming, Sam Esmail torna al cinema – sia pure per Netflix – con l’adattamento del romanzo distopico di Rumaan Alam, Leave the World Behind.
Il thriller millenarista e catastrofico si apre con la decisione della newyorkese Amanda Sandford di portare la sua famiglia in un weekend a sorpresa a Long Island, per lasciarsi le preoccupazioni alle spalle per un momento.
Il marito Clay è un professore, i l figlio Arch è interessato solo a raggiungere la fidanzata che non è troppo distante e la figlia Rose, la più intelligente del gruppo, sembra avere una mania per Friends. Nel corso del viaggio l’ipad di Rose perde il segnale proprio quando sta per cominciare l’ultima puntata e quando la famiglia Sandford raggiunge la bellissima villa immersa nel bosco, tutte le comunicazioni sono fuori uso.
I quattro si dirigono in spiaggia, dove però lentamente piomba un’enorme petroliera che pare fuori controllo, arenandosi in mezzo ai bagnanti. Poco male, c’è una bella piscina a casa e il promesso riposo sembra davvero avverarsi, almeno per poche ore: quella stessa notte si presentano alla villa G.H.Scott e la figlia Ruth. L’uomo afferma di essere il proprietario: dopo un concerto di musica classica ha preferito rientrare lì invece che andare nella sua casa newyorkese e chiede ospitalità per la notte.
Amanda è sospettosa e non si fida. Ma l’incubo in cui tutti capiranno di essere precipitati è molto diverso da quello che potevano immaginare.
Diviso in capitoli dai titoli enigmatici, il film di Esmail era stato pensato per la coppia Julia Roberts e Denzel Washington, poi sostituito dal due volte premio Oscar Mahershala Ali ed è un lavoro che sembra affidarsi interamente ai suoi attori.
Anche se Esmail come al solito sembra mostrare i muscoli con una messa in scena barocca, che si produce in carrelli impossibili, inquadrature sghembe, zoom e panoramiche a schiaffo, plongé e altre ricercatezze formali, Il mondo dietro di te è in effetti costruito su un continuo ricorso alla parola, al dialogo.
I sei personaggi non si fidano gli uni degli altri, cercano così di convincersi, di confrontarsi con quello che sta succedendo, nascondo informazioni, dicono bugie, cercano di razionalizzare, mentre il mondo attorno a loro cade letteralmente nell’oscurità.
Solo che, nonostante gli sforzi di Esmail, dei quattro adulti non ci interessa mai davvero nulla: sono personaggi così distanti, che l’ingaggio emotivo non scatta mai e in fondo, che vivano o muoiano, che sopravvivano o si perdano non è mai interessante.
Solo quando la dimensione apocalittica del film si mostra in modo clamoroso, Il mondo dietro di te riesce a far intuire le sue potenzialità, come nella grande scena dello schianto dell’aereo o quella delle Tesla a guida automatica o ancora quella dell’assalto dei cervi. Insomma quando le parole lasciano spazio alla messa in scena dell’azione, Esmail riesce realmente a creare terrore e inquietudine, quando invece il film si siede e si rifugia in dialoghi e monologhi infiniti, si sfilaccia e perde qualsiasi mordente.
In mano ad uno come Shyamalan, il racconto di Esmail avrebbe potuto assumere quella profondità e quel mistero che invece i personaggi cercano continuamente di negare: in particolare G.H. ha il compito pressoché esclusivo di spiegarci continuamente come va il mondo, solo che lo fa a più riprese, con una pedanteria da sussidiario.
Tutta l’angoscia che il film cerca di costruire, finisce smontata pezzo dopo pezzo. E se il tentativo finale era quello di evocare la minaccia eversiva che ha poi portato all’assalto a Capitol Hill e mostrare la fragilità delle nostre infrastrutture democratiche, il lavoro di Esmail è un po’ troppo qualunquista nel lasciare le responsabilità sullo sfondo, concentrandosi su teorie complottiste e suprematismi che sembrano andar bene per ogni pubblico.
Proprio lì dove il lavoro avrebbe dovuto essere chiaro diventa ambiguo: resta alla fine la conferma del talento cospirativo di Esmail, la sua competenza come costruttore di grandi allegorie, tuttavia pare più a suo agio nella forma lunga seriale, rispetto a quella breve del lungometraggio.
In ogni caso per un Natale Netflix all’insegna della paranoia vi suggeriamo un ideale trittico con Don’t Look Up di McKay e con Bird Box di Susanne Bier.

