Il sol dell’avvenire

Il sol dell’avvenire ***

“Nella vita nessuno cambia mai veramente, è una cosa che si vede solo nei film”

Sono passati trent’anni da quando Nanni Moretti attraversava orgogliosamente e controcorrente – da splendido quarantenne – una Roma estiva, mai così dolce, fino ad arrivare a Ostia, nello spiazzo dove fu ritrovato il cadavere di Pier Paolo Pasolini.

Caro Diario chiudeva simbolicamente la prima fase della sua carriera, cominciata con i cortometraggi studenteschi, proseguita con l’esperimento in Super 8 di Io sono un autarchico e poi celebrata nei maggiori festival internazionali a partire da Ecce bombo e con un pugno di film capaci di imporlo come la voce più originale e personale del cinema italiano degli anni ’80.

Una voce sferzante nei confronti dei riti della media borghesia romana, della cultura e del cinema italiani, in cui la dimensione politica ha sempre avuto un ruolo decisivo, poi diventato esplicito nel dolente ed epocale Palombella rossa, in cui la fine del Partito Comunista Italiano si intrecciava alle sconfitte personali e sportive e si sublimava nel finale tragico del Dottor Zivago.

La natura privata e intima del suo diario, tra idiosincrasie, passioni e il racconto della malattia portava al superamento del suo alter ego cinematografico, Michele Apicella, e alla chiusura della lunga stagione del suo cinema autarchico. Eppure quel film era incastonato in una serie di progetti in cui affrontare più direttamente le questioni ideali, che da sempre sono al centro del suo percorso artistico e personale.

La caratterizzazione di Cesare Botero, mefistofelico ministro socialista de Il portaborse, poi quella di Alberto Sajevo, professore scampato ad un attentato terroristico ne La seconda volta, erano il preludio ad Aprile, in cui la vittoria del centrosinistra si intrecciava con la nascita del suo unico figlio. Il personale è politico, come nello slogan celeberrimo di Carol Hanisch.

Con La stanza del figlio, Palma d’Oro nel 2001, si apriva un tempo nuovo, in cui il suo cinema è sembrato rifuggire la centralità ingombrante del suo personaggio, attenuare – anche grazie alla collaborazione con diversi sceneggiatori come Heidrun Schleef, Francesco Piccolo, Federica Pontremoli, Valia Santella – la componente più esplicitamente autobiografica, in favore di racconti più stratificati, che spesso si confrontano con la dimensione dell’assenza, della perdita, dell’ansia che prelude alla rinuncia: Habemus Papam e Mia madre compongono con il primo una sorta di trilogia ideale, rotta solamente da un altro film esplicitamente politico, Il caimano, in cui il tentativo di produrre un lungometraggio sulla vita del Berlusconi alimentava le frustrazioni di una giovane regista e faceva deflagrare il matrimonio del piccolo produttore che invano cercava di sostenerla.

Dopo l’infelice adattamento di Tre Piani di Nevo, che trovava solo nell’ultima parte una sua dimensione autentica, con Il sol dell’avvenire Moretti sembra riabbracciare la dimensione più personale della sua ispirazione, tra cinema, ironia, invettive e idiosincrasie, fallimenti sentimentali e politici.

Il film nasce dal progetto naufragato di una storia ambientata nel 1956 al tempo dell’invasione sovietica dell’Ungheria, che provocò la prima significativa frattura nella sinistra italiana.

Il copione originariamente scritto con Valia Santella e Federica Pontremoli viene rivisto con Francesca Marciano lasciando gli anni ’50 in una parentesi rappresentata dal film nel film che il protagonista de Il sol dell’avvenire, il regista Giovanni, sta girando a Roma con Silvio Orlando e Barbora Bobulova nei panni di un giornalista dell’Unità e di una sarta, militanti della sezione del Quarticciolo, che accoglie l’arrivo di un circo ungherese, proprio nei giorni della repressione sovietica.

Giovanni sta cercando di salvare il suo lavoro e la sua famiglia: il rapporto con la moglie Paola (Margherita Buy), sua storica produttrice, è arrivato alla fine, il coproduttore francese Pierre (Mathieu Amalric) viene improvvisamente arrestato, l’incontro con Netflix prende una piega tragicomica e la figlia si è innamorata di un uomo molto più grande di lei (Jerzy Stuhr).

Immerso nel passato, Giovanni sembra non essere più in grado di comprendere il presente, non solo nella sua dimensione privata, ma anche in quella professionale, scagliandosi contro un collega che dirige film pieni di inutile violenza.

Il terzo livello di questa matrioska cinematografica sono i film immaginari, quello sul libro di Cheever e quello che si materializza pian piano nella fantasia di Giovanni: due giovanissimi spettatori (Blu Yoshimi e Michele Eburnea) che si innamorano mentre sono a cinema e che attraversano gli alti e bassi della loro vita accompagnati dalle note sublimi e leggere delle canzoni italiane.

Il sol dell’avvenire è il tentativo di Moretti di ritornare alla centralità perduta del suo alter ego cinematografico, quello che fino a Palombella rossa e poi con le confessioni di Cario Diario e Aprile ha rappresentato un’ancora, un punto di riferimento imprescindibile, per molti dei suoi spettatori: le sue ossessioni, le sue manie, i suoi gusti, le sue invettive sono state riprese e citate infinite volte, fino a farne patrimonio comune di almeno un paio di generazioni. Il suo personaggio ha testimoniato molte volte un modo di reagire ai cambiamenti della vita, della società italiana, della politica, senza nascondere la propria ostinata diversità, ma anche la propria inadeguatezza.

Poi, nel corso tempo, i suoi film hanno cercato di emanciparsi dalla sua presenza carismatica, cercando strutture drammatiche differenti, una condivisione diversa dei ruoli davanti alla macchina da presa e raccontando soprattutto paure e ansie personali e collettive, ritagliandosi un punto di vista sempre più marginale, sino all’uscita di scena anticipata di Tre piani.

Compiuto quel percorso sino in fondo, è come se Moretti oggi avesse fatto pace con i suoi incubi, accettando ancora una volta di riprendersi il centro della scena, regalando ai suoi spettatori fedeli una nuova avventura del suo Antoine Doinel, con le sue idiosincrasie, le sue confessioni, la sua estraneità ai nuovi riti del nostro vivere civile.

E così ritornano la coperta di Sogni d’oro, il gelato e i riti di spettatore, ritornano i sabot, il quartiere Mazzini, i palleggi, le vasche in piscina, il monopattino che sostituisce la vespa, così come resta l’avversione per la violenza delle immagini senza morale, che occupa una delle scene più importanti del film: “Tutti quanti, registi, produttori, sceneggiatori, sono preda di un incantesimo. Un giorno vi sveglierete e piangere, rendendovi conto di ciò che avete combinato: la scena che stai girando fa male al cinema, a te che la giri e a noi che la guardiamo”.

Il fare cinema, la sua morale, la responsabilità verso il pubblico emergono molte volte nel corso film, non solo nei riguardi del giovane regista che afferma di “accecare il male illuminandolo”. La scena con gli executive di Netflix, che pretendono turning point e momenti what-a-fuck nel suo slow-burner, sembra evocare l’intervista di Mariella Valentini in Palombella rossa, ma è anche una dichiarazione d’intenti, da parte di chi nella sua lunga carriera oltre che girare film, li ha anche prodotti, distribuiti e poi direttamente mostrati nella sua sala al Nuovo Sacher, organizzando rassegne e festival, sostenendo molti giovani esordi italiani con una fede incrollabile in un modo di fare cinema, che oggi sembra essere andato in crisi.

Non è un caso però che quella lunga sequenza che si prolunga per una notte intera, si concluda con una sconfitta, con Giovanni che abbandona il set in piano sequenza mentre alle sue spalle il regista gira finalmente quella brutale esecuzione a lungo rimandata.

In quella accettazione malinconica forse c’è lo spirito de Il sol dell’avvenire, che cambia le sorti anche dei personaggi del film che Giovanni sta girando. Il moralismo severo lascia spazio alla constatazione che con il brutto bisogna in fondo venire a patti e con la propria ispirazione almeno si può immaginare una via di fuga. Giovanni così accetta in qualche modo le modifiche che la sua attrice continua a voler portare alla sua storia politica e finisce per sposare del tutto il punto di vista di quel personaggio anche rispetto all’invasione sovietica del ’56.

E così il cupo finale immaginato dal regista per la sua storia – un finale che a tutti sembra piacere in modo sinistro, persino ai coproduttori coreani, secondo cui rappresenta la morte “dell’arte, del comunismo, dell’amore, della morale: è proprio la fine di tutto” – non è quello adatto questa volta: come ha già testimoniato qualcun altro, la storia si può piegare all’ucronia, si può riscrivere artisticamente, immaginando per tutti un futuro diverso.

E’ forse questa la novità più sincera: pur condividendo l’amarezza e il dolore dei suoi antieroi, questa volta Moretti trova il modo di abbracciare il passato, di emendare gli errori e accettare le proprie sconfitte.

E lo fa chiamando a raccolta simbolicamente tutti i testimoni del suo cinema, in un abbraccio che sembra condividere con il suo pubblico.

Come spesso in passato, la struttura narrativa è debole, continuamente sfrangiata, costruita per scene spesso autoconclusive e per continue interruzioni e intermezzi, soprattutto musicali. A Moretti sembrano sempre interessare più i film (im)possibili che non farà, piuttosto che quello che sta effettivamente costruendo: una volta c’era la storia del pasticciere trotzkista, oggi c’è Il nuotatore di Cheever o il musical sentimentale ambientato negli anni ’60. Lo stesso film sul circo ungherese Budavari al Quarticciolo non è che una deviazione, un modo per parlare d’altro, continuando a parlare di sè. Ed è per questo che tra i tanti attori coinvolti, alla fine emergono soprattutto il protagonista e Margherita Buy, compagna di tutti i suoi ultimi lavori, qui sempre più radiosa e giusta, nel ruolo della moglie Paola, capace di chiudere una lunga storia personale con la serenità e la maturità che sembrano mancare al regista ossessionato dalle sue manie: sempre più spesso nei suoi film la Buy rappresenta il punto di riferimento ideale, equilibrato, lo sguardo attraverso cui vedere le cose della vita, il carattere che Moretti si accorge di non poter diventare.

Il sol dell’avvenire è un distillato del Moretti più autentico, è una confessione e una nuova riaffermazione di sè, ma è anche un film pienamente consapevole del tempo trascorso e perduto.

Da non perdere.

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Un pensiero riguardo “Il sol dell’avvenire”

  1. Buonanotte.Ho letto la vostra recensione del nuovo Moretti.Andrò a vederlo.Stasera invece sono andato a vedere Avatar 2 per la mia prima volta in Imax Uci Porta di Roma col 3D etc. etc.Oltre alla bellezza tecnologica speravo ci fosse un film e invece il film non c’è.Uno splendido polpettone.Dalla lunghezza estenuante.Come diceva Leone? Ci sono film da un ora e mezza che sembrano 3 ore ed il contrario preciso.Non sarà che Imax 4k 3D sono tutta una impalcatura per ingigantire trame deboli o prevedibili? Altra piccola questione ma un film di 3 ore senza un intervallo? Sono dovuto uscire che non ne potevo piu per andare al bagno perdendo minuti di film.Bella la vostra recensione del Sol dell’Avvenire.Ancora grazie.Saluti.

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