The Beatles: Get Back

The Beatles: Get Back **1/2

Sono passati appena due mesi dall’uscita trionfale del doppio White Album e nel gennaio del 1969 i Beatles decidono di incidere il loro nuovo album come se fosse un live, provando e costruendo assieme i pezzi da suonare per la prima volta in due show trasmessi dalla tv, alla fine di un paio di settimane di sessions condivise negli studi di Twickenham.

E’ il metodo che Dylan stava sperimentando con The Band nella sua casa di Woodstock e George Harrison ne era rimasto affascinato.

Ma quattro di Liverpool non suonavano dal vivo dalla fine del tour del 1966, nell’agosto del 1967 era morto a 32 anni il loro manager Brian Epstein, lasciandoli in balia di una serie di professionisti e dei loro diversi desideri.

Paul McCartney, dopo la realizzazione del video di Hey Jude con il regista Michael Lindsey-Hogg, aveva convinto gli altri a ripetere e ampliare quell’esperienza.

Fissate le due serate finali dello show al 19 e 20 gennaio 1969, il 2 gennaio i quattro musicisti si ritrovano con la troupe del regista, Yoko Ono, il loro produttore e arrangiatore George Martin, l’ingegnere del suono Glyn Johns e il road manager Mal Evans nel grande set cinematografico di Twickenham, per provare e completare i nuovi pezzi.

Solo che Lennon non ha quasi nulla da proporre, a parte quella che diventerà Don’t Let Me Down, George Harrison è riluttante a condividere i suoi pezzi, evidentemente frustrato per il ruolo marginale che i due leader gli lasciano, Ringo Starr ha sempre scritto pochissimo e contribuirà alla fine con il suo miglior brano, ispiratogli dai racconti dei pescatori sardi.

Chi spinge invece l’acceleratore è invece Paul McCartney che è un fuoco d’artificio creativo. Aspettando Lennon sembra trovare l’ispirazione per quella che sarebbe diventata Get Back, poi propone Mother Mary che diventerà Let It Be e The Long and Winding Road, ovvero la spina dorsale dell’album.

Il fluviale documentario in tre parti, montato da Peter Jackson, ha riportato alla luce le quasi 60 ore di girato originale, rimaste per oltre cinquant’anni un reperto in gran parte perduto.

Questo naturalmente non vuol dire che nel documentario ci sia tutto e che quello a cui assistiamo è davvero quello che è accaduto in quel gennaio 1969. Il montaggio c’è, eccome, meno invisibile di quanto appaia. E la supervisione di McCartney, Ringo Starr e degli eredi ha smussato probabilmente alcune asprezze.

Abituato ai tempi lunghi delle sue trilogie tolkeniane, il regista neozelandese si prende però tutto il tempo necessario per ricostruire giorno per giorno, grazie ad un calendario dell’epoca, le lunghe giornate di prove, culminate infine con il leggendario concerto sul tetto della Apple Rec. a Saville Row del 30 gennaio 1969.

Per arrivarci il percorso è tortuoso e complicato. George Harrison, stanco di sottostare alla leadership di Lennon e McCartney, improvvisamente abbandona gli studi e il gruppo alla fine della seconda settimana, mentre faticosamente gli altri cercano di fargli cambiare idea.

Nel frattempo le sessions si spostano negli studi della Apple nel cuore di Londra e lo show televisivo viene cancellato definitivamente, mentre la troupe cinematografica e Lindsay-Hogg arranca, cercando di testimoniare ogni passo, senza tuttavia sapere più cosa succederà davvero il giorno dopo.

Il riemergere carsico di questo pezzo di storia musicale del Novecento è un regalo prezioso per fans e appassionati, soprattutto perchè nella sua durata estenuante vorrebbe riuscire non solo a far comprendere meglio dinamiche personali e di gruppo di cui si è favoleggiato per anni, ma soprattutto perchè mostra il processo creativo nel suo farsi, nelle sue lungaggini estenuanti, nei suoi tentativi e nei suoi fallimenti.

L’album non uscirà fino al maggio 1970, col titolo di Let It Be, dopo essere passato per le mani di Phil Spector, che imporrà ai brani una pesante post-produzione, suscitando le ire di McCartney.

Nel frattempo i Beatles troveranno il tempo di incidere Abbey Road, il loro ultimo lavoro, nella primavera del 1969 quando ormai la fine si era fatta inevitabile.

Eppure nelle otto ore di questo Get Back non avvertiamo tensioni insostenibili, non assistiamo a litigi furibondi, a prevaricazioni e risentimenti: l’impressione è quella di assistere più spesso agli scherzi e al divertimento di quattro ragazzi a cui ancora piace suonare assieme.

Suonare qualunque cosa: canzoni di altri, vecchi blues, improvvisazioni estreme.

Le ripetizioni infinite, l’affinamento dei testi, ancora incompleti, la scelta degli arrangiamenti: in Get Back ascoltiamo decine di pezzi. Solo alcuni finiranno nel disco pubblicato nel 1970. Gli altri restano come testimonianza scanzonata di quattro musicisti, non ancora trentenni, ma già all’apice della loro carriera.

Le personalità dei quattro raccontano di obiettivi molto diversi. McCartney sembra l’unico davvero interessato al futuro dei Beatles: è lui la forza creativa del disco ed è lui a voler tornare a suonare in pubblico, ipotizzando ogni possibile location, prima di arrendersi quasi del tutto, ai rifiuti passivo-aggressivi di Harrison.

Lennon è distratto dalla presenza di Yoko Ono e annebbiato dalla droga, che il lavoro di Jackson pietosamente occulta: non sembra molto interessato ai pezzi, divaga, improvvisa, segue McCartney soprattutto.

Di Harrison abbiamo detto: è lui il villain di questa storia. I suoi pezzi non sembrano interessare gli altri, ascoltiamo quelli che poi sarebbero diventati All Things Must Pass e Something, ma il suo lavoro sembra in qualche modo solo tollerato dagli altri, mentre il chitarrista è costretto a seguire le rigorose indicazioni di McCartney sugli arrangiamenti, fino a decidere di andarsene, al culmine della frustrazione.

A Ringo Starr spetta il ruolo del professionista, il primo ad arrivare alle sessions, sempre concentrato, di poche parole, ma simpatico, leggero, amorevole con tutti, capace di abbassare la temperatura ogni volta che si avvicina al punto di ebollizione.

Una menzione speciale merita il grande Billy Preston, organista di Little Richard, che i Beatles avevano conosciuto ad Amburgo, nel loro periodo tedesco, quando era un ragazzino di appena sedici anni: di passaggio a Londra, va a trovare i quattro per un saluto e viene immediatamente assunto per le sessions, donando spessore soul ai pezzi e contribuendo con il suo entusiasmo e le sue risate a creare un clima positivo negli studi. I quattro lo sceglieranno ancora per Abbey Road e nella loro carriera solista. Diventerà poi il pianista degli Stones per quasi tutti gli anni ’70.

Il montaggio di Jackson ha certamente un valore testimoniale inestimabile e si conclude con la performance sul tetto della Apple, ripresa nella sua interezza e contrappuntata dal tentativo, infine riuscito, di due poliziotti di interrompere l’esecuzione per disturbo alla quiete pubblica.

Probabilmente una maggiore capacità di sintesi avrebbe giovato al suo lavoro, che si muove per accumulo e per sfinimento, mostrando le infinite ripetizioni dei pezzi, le false partenze, i tentativi abortiti.

Il lavoro di ri-sincronizzazione di tracce solo audio con le riprese video è fenomenale. Ma si tratta di un piccolo capolavoro tecnico, che non cambia la direzione di Get Back.

Si tratta soprattutto di un documentario per completisti e appassionati. Se qualcuno cercava in quelle registrazioni la pistola fumante dell’imminente scissione rimarrà forse deluso. Si notano soprattutto la frustrazione di Harrison e la distrazione di Lennon. Ma non ci sono grandi scene madri, non ci sono furibondi litigi e scazzottate, quelli che la stampa già allora gli attribuiva. I quattro ne ridevano di gusto, leggendo i pezzi sui giornali.

C’è piuttosto la rappresentazione di un’impasse evidente. E c’è la confessione di McCartney, ora costretto ad un ruolo di leadership che crea fratture probabilmente inevitabili e che rimpiange la simbiosi un tempo esistente con Lennon, capace di alimentare la loro creatività.

Incapaci di sopravvivere alla loro evoluzione, personale e artistica, i quattro si scioglieranno un anno dopo le sessions di Get Back, senza mai più riunirsi, lasciandosi alle spalle una dozzina di album a 33 giri ed entrando definitivamente nella dimensione della leggenda musicale.

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