Piccole donne. Recensione in anteprima!

Piccole donne ***

“I can’t believe childhood is over”

In un modo o nell’altro cerchiamo tutti di sentirci parte vitale di una comunità, un microrganismo con una sua funzione e una propria luce a cui altri microrganismi possano fare riferimento. Che questo senso di comunione si trovi in una chiesa, un club affollato, una setta o in famiglia, poco importa. Quello che rende irresistibili le sorelle March, nate nel 1868 dalla penna di Louisa May Alcott ma ancora giovani sul grande schermo per la regia di Greta Gerwig, è che appaiono da subito sufficienti a se stesse. Sono un’isola rigogliosa, una supernova in continua esplosione che riempie e dà vita a ogni spazio che attraversa.

Questo, insieme alla struttura episodica, è di certo il nucleo che rimane invariato fra romanzo e trasposizione. A spostarsi nettamente è invece l’asse tematico. Se da un lato abbiamo una parabola di crescita tutto sommato lineare, la Gerwig nella sua rivisitazione ha voluto parlare di età adulta intesa come abbandono dell’infanzia.

La narrazione prende le mosse in un presente dai toni gelidi, ambientato sette anni dopo i fatti raccontati nel libro. Attraverso una serie di salti temporali, riconosciamo le corrispondenze e gli sviluppi fra i germi seminati anni prima e i germogli dell’adesso. Il montaggio sincopato rende difficile seguire lo scorrere degli eventi per chi non ha (ri)letto il romanzo, così come risulta difficile affezionarsi ai personaggi senza avere bene in testa il background da cui sono stati prelevati, che qui viene dato per scontato.

In compenso, la patina nostalgica che ricopre ogni fotogramma crea un terreno di comprensione comune, evocando il lamento sconsolato che risuona in testa quando tutto diventa complicato e vorremmo solo poterci catapultare in un “prima” indefinito, puro, carico di possibilità.

L’alchimia fra le protagoniste conferisce una piacevole fluidità e un costante punto di riferimento. Saoirse Ronan nei panni di Jo è l’agente caotico che elettrizza e benedice quel che tocca, facendo risaltare la sensibilità nascosta di Amy (Florence Pugh, che come in Midsommar dà il meglio di sé nel piagnisteo), lo spirito calmo e materno di Meg (Emma Watson), la dolcezza disarmante di Beth (Eliza Scanlen) e persino i lati positivi della loro arcigna zia (Meryl Streep), per arrivare a un toccante momento con Laura Dern (la madre delle ragazze, anche se “tutti la chiamano Marmee”), che per struttura e intensità sembra citare il dialogo finale a cuore aperto fra Elio e suo padre in Call me by your name. La dinamica che unisce e allontana il suo personaggio da quello di Laurie (Timothée Chalamet) è emblema della disillusione nel mondo dorato dell’infanzia, del prevalere del senso pratico sull’agire di pancia, ma anche della volontà di tendersi una mano nonostante tutto, perché anche quando si cresce è bene proteggersi e assicurarsi che almeno una parte di se rimanga ingenua.

Nota positiva anche la colonna sonora di Alexandre Desplat, che si muove con gentilezza, accompagna senza invadere e rifinisce dove serve un tocco di colore.

Un film morbido, che lascia la sensazione di un abbraccio.

 

 

 

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