Mosaic è una storia di frammenti che sembrano cozzare l’uno con l’altro. Lo spettatore che cerca di ricomporre questo mosaico deve munirsi di calma e accettare che più che una facile integrazione delle tessere si troverà davanti ad una refrattarietà alla corrispondenza.
Le tessere corrispondono ai personaggi. I contrasti, i dubbi, le ambiguità sono presenti un po’ in tutti i protagonisti: le motivazioni dei loro gesti sfuggono spesso allo spettatore che si trova ad osservarli, sempre dall’esterno. La scrittura porta tutta l’attenzione sul mondo del singolo personaggio, lasciando sullo sfondo l’ambiente e limitando la narrazione a quanto è strettamente funzionale allo sviluppo dell’indagine.
Mosaic si presenta solo apparentemente come un murder mystery canonico, caratterizzato da un numero ristretto di personaggi e da una narrazione declinata sotto forma di flashback. La scelta di rappresentare la vicenda a partire dai punti di vista dei protagonisti, utilizzando incastri e ribaltamenti, ripetizioni della stessa scena, improvvise accelerazioni e rallentamenti, lascia lo spettatore disorientato ed emotivamente separato dagli eventi.
Chi ci legge forse saprà che la serie Tv è parte di un progetto più ampio che prevede anche un’applicazione, non rilasciata sul mercato italiano, e quindi la scelta di puntare soprattutto sui personaggi è coerente con la fruibilità attraverso diversi media.
Non è all’immedesimazione che vuole quindi portare Soderbergh, ma alla presa di distanza. Così ci sono dialoghi che ci sfuggono quasi completamente perché siamo distratti dagli sms che compaiono sullo schermo e che rimandano a frasi decontestualizzate e la cui ricontestualizzazione ci impegna e quindi ci sottrae alla vicenda visiva rappresentata. Alcune scene presentano persone immobili, che non sembrano nemmeno essere veri e propri attori, ma piuttosto statue. Insomma, il gioco scenico è palesato senza alcuna ritrosia.
Partire dagli attori e centrare sul loro carattere lo sviluppo della vicenda porta con sé la necessità di interpretazioni adeguate.
Tra queste svetta quella di Sharon Stone che interpreta la scrittrice Olivia Lake. L’unico, grande successo di Olivia è un libro per bambini in cui la storia viene raccontata dal punto di osservazione del cacciatore come da quello dell’orso, entrambi impegnati a difendersi da una minaccia esterna. Stiamo parlando di una donna difficile, per cui possiamo sprecare un florilegio di aggettivi, spesso in opposizione tra di loro.
Una scrittrice incattivita dal passare degli anni e dallo sfiorire della giovinezza, narcisista e poco gradevole? Forse, ma se pensiamo a quello che dice nell’ultimo episodio una diciassettenne che ha acquisito fiducia in se stessa proprio grazie ad Olivia e alla sua fondazione (Mosaic appunto), allora questo giudizio vacilla e restiamo aggrappati alla fragilità del concetto di verità.
La vita di Joel è interamente condizionata da questo anelito, dal desiderio di raggiungere la verità sulla notte in cui Olivia è stata assassinata. Non ricorda cosa è successo perché ubriaco e si convince, in un primo momento, di aver tradito la compagna Laura e, in un secondo, di aver ucciso Olivia. Vuole crearsi una verità a tutti i costi anche se essa non corrisponde alla realtà. Garrett Hedlund interpreta in modo degno di nota questo ragazzone che, nel corso dei quattro anni in cui si svolgono le vicende, cambia lavoro, look e aspirazioni, ma non riesce a superare quel senso di colpa che lo porterà a convincersi di essere l’assassino della scrittrice.
A partire dal rinvenimento del cadavere di Olivia Lake lo spettatore accompagna Joel in un percorso che si rivela essere una strada senza uscita. Giunto al termine, la telecamera lo abbandona per affiancare Petra Neil nelle sue indagini. Petra Neill (Jennifer Ferrin) è una restauratrice, sorella del principale indiziato dell’assassinio di Olivia e cioè Eric Neil (un Frederick Weller non sempre all’altezza del compito): Soderbergh e Solomon le affidano il ruolo di motore delle indagini e quindi anche la principale responsabilità nella lettura della vicenda dato che, tra i molteplici punti di vista, il suo è uno sguardo privilegiato. Petra ci lascia la sensazione che avrebbe potuto dare qualcosa di più se inserita in uno spazio narrativo meno vincolato all’indagine, più arioso.
Gli elementi più interessanti, oltre alla performance della Stone, sono naturalmente la regia e la fotografia, entrambi fortemente autoriali. Durante i sei episodi di questa prima stagione si passa dalla luce bianco abbacinante della prigione a quella soffusa dei bar e dei ristoranti, dal caldo degli interni al ghiaccio del paesaggio invernale attorno alle ville.
La sceneggiatura di Ed Solomon (Men in Black, Charlie’s Angels) sviluppa la vicenda in modo essenziale, con dosati tocchi di umorismo e non sense, attenzione ai dettagli e creazione di caratteri complessi, ma lascia spesso perplessi e questo non tanto per l’effetto straniante di cui abbiamo già parlato, quanto per il mancato sfruttamento delle potenzialità del mezzo.
Se il senso di incompiuto e i numerosi salti narrativi, che a volte appaiono come veri e propri buchi, sono giustificabili perché contribuiscono allo straniamento, è difficile fare lo stesso per l’accumulo di deduzioni presenti nell’ultimo episodio. La narrazione sembra costretta nei sei episodi di cinquanta minuti l’uno: non può divagare e divertere dal percorso principale, dalla strada che porta a raggiungere (anche fisicamente) l’assassino, da una montagna di deduzioni che lascia piuttosto freddi perché manca di umanità e di relazione.
Ricomporre il tutto a partire dai frammenti è faticoso, richiede disponibilità e capacità di ascolto da parte dello spettatore: chi vuole affrontare questa serie deve quindi superare l’iniziale senso di disorientamento, così forte nel primo episodio, quando i personaggi sono presentati senza che vengano chiariti i rapporti e le connessioni tra di loro, e prepararsi a ricostruire un puzzle narrativo complesso. Ne varrà la pena? Noi crediamo, tutto sommato, di sì.