E’ morto a Parigi, dove si trovava per curarsi da un tumore, Abbas Kiarostami, maestro e padre del cinema iraniano, faro indiscusso dei cinéphiles negli anni ’90, aveva saputo interpretare e cambiare il cinema del suo paese e quello internazionale, con la forza del suo sguardo.
Lontani da un realismo di maniera, i suoi film sono sempre stati riflessioni sui limiti della rappresentazione, sulla distanza e sulle sovrapposizioni tra finzione e realtà, sulle rispettive influenze, sul contesto storico e culturale.
Nato a Teheran nel 1940, dopo la Laurea all’Università di Belle Arti viene assunto da una casa di produzione di film pubblicitari. Per loro disegna manifesti, fa l’illustratore e scrive moltissimi cortometraggi Nel 1969 inizia a collaborare all’Istituto per lo sviluppo intellettuale per bambini e adolescenti, nella sezione cinematografica. In quegli anni formativi comincia a lavorare con attori non professionisti, spesso bambini o adolescenti.
I suoi primi lavori sono molto influenzati dal neo-realismo italiano. Rimane in Iran anche dopo la rivoluzione khomeinista e nella seconda metà degli anni ’80 conosce la fama internazionale, grazie a Dov’è la casa del mio amico, Pardo di Bronzo a Locarno, che fa conoscere al grande pubblico europeo il suo sguardo originalissimo e la sua impareggiabile sensibilità nel dirigere i bambini.
Il film del 1987 è il primo della cosiddetta ‘trilogia di Koker’ a cui seguiranno E la vita continua (1992) girato negli stessi luoghi dopo il terremoto del 1990 e Sotto gli ulivi (1994), che mette in scena il set e le storie nate tra i personaggi, durante le riprese. Kiarostami ritorna sui temi della vita e della morte, dello spirito della comunità, con un’originalità e una freschezza narrativa travolgente.
La sua capacità di leggere il paesaggio attraverso le persone che ci vivono, la ricerca ossessiva di cui i suoi personaggi sono protagonisti, spingono i suoi film verso una ricchezza di interpretazioni, che spesso si affianca al mistero della vita.
Il realismo del contesto sociale e dell’ambientazione non va confuso con una messa in scena controllatissima, perfettamente consapevole di sè, capace di svelare il meccanismo del cinema e mettere una distanza di sicurezza tra realtà e rappresentazione.
In anni in cui il trionfo del postmoderno tarantiniano sembrava l’unica risposta alla dissoluzione delle narrazioni, il suo cinema dava una soluzione diversa alle stesse domande.
Il suo capolavoro è probabilmente Close Up (1990) nel quale Kiarostami racconta – tra documentario e ricostruzione – la vera storia di un appassionato di cinema, Hossain Sabzian, che si fa passare per il grande regista Mohsen Makhmalbaf, convince una famiglia di Teheran a finanziargli il suo prossimo film, progetta di usare la loro casa come set e di far recitare il loro figlio più grande.
L’inganno è smascherato da un giornalista e Sabzian finirà sotto processo, prima che Kiarostami stesso convinca Makhmalbaf ad intercedere presso la famiglia…
Il film è un’atto di amore per il cinema e al contempo una riflessione acutissima sulla celebrità e sui suoi inganni, sull’irruzione della macchina cinema all’interno della realtà. Kiarostami riprende il processo a Sabzian, cerca di capirne le motivazioni e convince tutti i protagonisti a reinterpretare se stessi, rimettendo in scena i fatti già accaduti.
Il film debutta al Festival Giovani di Torino dove vince il premio FIPRESCI e ha una piccola distribuzione anche in Italia.
E la vita continua debutta a Cannes ad Un certain regard, mentre Sotto gli ulivi è in concorso. Kiarostami scrive nel frattempo per Panahi Il palloncino bianco, che vince la Camera D’Or a Cannes nel 1995.
Torna sulla Croisette nel 1997 con Il sapore della ciliegia e conquista una meritatissima Palma d’Oro.
Dal punto di vista stilistico Kiarostami è stato un grande innovatore, capace di imporre una grammatica nuova, rompendo l’alternanza classica tra campo e controcampo, usando le auto e i camera-car come nessun altro, creando spesso un luogo altro, puramente cinematografico per i suoi protagonisti.
Nei suoi film la macchina da presa si muove pochissimo e quasi sempre sull’asse. Kiarostami ha sempre preferito il movimento interno alla scena, rispetto a quello dello sguardo. Sotto gli ulivi ne è l’esempio più limpido.
Nel 1999 porta a Venezia Il vento ci porterà via, che conquista il Leone d’Argento.
Con la recrudescenza del regime iraniano i suoi film si diradano. Kiarostami si dedica al documentario: ABC Africa, Ten, Five.
Nel 2003 scrive ancora per Panahi: Oro rosso, premiato ad Un certain regard, è forse il suo ultimo capolavoro.
Nel 2005 dirige un episodio di Tickets, assieme a Ermanno Olmi e Ken Loach.
Nel 2008 porta a Venezia Shirin, un esperimento tutto al femminile, su uno dei poemi più famosi della Persia.
Copia certificata è girato in Toscana con Juliette Binoche nel 2010. Diviso in due parti, apparentemente contigue e con gli stessi due protagonisti, impegnati in un tour de force tra passione e straniamento, è forse il suo testamento artistico.
Il successivo, finale, Qualcuno da amare (2012), girato in Giappone, è un piccolo divertissement formalista e su commissione, che non aggiunge nulla ad una carriera leggendaria.


