Cinema con vista: L’ultima parola

Trumbo 4

Il capitombolo di un film getta ombra su un’intera classe. Gli sceneggiatori salutano un capofila della professione con il crollo del buon cinema e del pubblico in sala. A gioire sono solo costumisti e parrucchieri, sempre pronti a tirare a lucido i patinati protagonisti.

Un Dalton Trumbo così alla moda non si era mai visto. Anche in prigione mantiene la messa in piega e il suo stilista rende la vita una sfilata. Il nostro eroe parte dal Colorado e arriva a Los Angeles col piglio del vincente. Ricercato, glorificato e al centro della società hollywoodiana, negli anni quaranta è uno dei migliori sceneggiatori sulla piazza. Però ha un difetto: è comunista. Il maccartismo non lo perdona e lo trascina in tribunale, dando vita a una delle pagine più tristi della storia dei cineasti.

Jay Roach gestisce un biopic dal successo assicurato. Una storia di lotta, di redenzione e soprusi, che smuove i sentimenti di qualsiasi platea. L’impegno per i diritti civili è sempre sulla cresta dell’onda e accende il semaforo verde per l’indignazione e per il “non dovrà succedere ancora”. Ma fare cinema è un’altra cosa.

Con la demenzialità di Austin Power, al regista si poteva perdonare qualsiasi errore. Era un film senza pretese, che voleva solo far ridere e divertire i ragazzini, con la sua apparente mancanza di profondità. Gli errori di stile non erano da condannare, ma quando si alza l’asticella delle ambizioni anche il giudizio si fa più caustico.

L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo è figlio di una televisione che non c’è più, sempre sospeso tra il frivolo melodramma e il documentario. I filmati d’epoca spezzano il ritmo della narrazione e i dialoghi molto spesso sono vuoti. Si limitano a lanciare sentenze e informazioni, senza soffermarsi sui significati o sulle emozioni.

Il vero accento lo si pone sulle patinature e sullo sfrenato gusto per il vintage, che sfocia nelle sfilate di moda e nel manierismo. C’è una cura spasmodica per le capigliature, il trucco e il cambio d’abito, mentre i veri significati del film si perdono nel vento. Addio all’impegno sociale e alle belle sceneggiature, ciò che conta è l’artificiosa costruzione di un artista che non c’è più. Un uomo capace di scrivere Vacanze Romane e scegliere l’anonimato.

Bryan Cranston prova a rendere onore al grande Dalton Trumbo e quasi ci riesce. Se non fosse per quei baffi posticci gli si potrebbe anche credere, ma ciò in cui pecca è la mancanza di espressioni, la scarsa voglia di diventare qualcosa in più di una riuscita messa in piega e qualche bel vestito. Le vere note dolenti arrivano con Diane Lane, moglie col sorriso sempre sul volto che sembra avere un rapporto più stretto col parrucchiere che col marito. Non perde il buon umore neanche col povero Trumbo dietro le sbarre.

L’ultima parola è una grande storia vera raccontata dal regista sbagliato. La mancanza di stile narrativo pesa come un macigno e il cast non rialza le sorti della pellicola. L’autore di Spartacus ed Exodus merita di più, già solo per aver creduto nei suoi ideali fino all’ultimo. Ci si consola con qualche cameo, come Kirk Douglas e John Wayne, buffi e determinati nella visione di Jay Roach. I veri capolavori sono le sceneggiature scarsamente citate di un grande artista.

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