Ida

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Ida ***1/2

Nella Polonia comunista degli anni ’60, Anna è una novizia che sta per prendere i voti.

La madre superiora vuole che conosca l’unica parente ancora in vita, la zia Wanda, sorella della madre, che è un giudice severo e spregiudicato.

Anna esce dal convento e raggiunge Wanda in città. Scopre di essere ebrea, di chiamarsi Ida Lebenstein in realtà e di essere scampata alla persecuzione ed alla morte dei suoi genitori e del fratello.

Assieme a Wanda comincia un viaggio nei dintorni di Lublino, alla ricerca di una verità che tutti vorrebbero dimenticare.

Farà esperienza della vita, conoscerà la musica jazz, l’alcol ed i sentimenti.

Il viaggio di Ida e quello di Wanda sono un ritorno alle origini per entrambe, ma anche una scoperta di sè.

Romanzo di formazione e ritratto psicologico al tempo stesso, Ida è uno dei capolavori della stagione, vincitore al Festival di Londra ed a quello di Toronto.

Pawel Pawlikowski torna nel suo paese natale, dopo due film girati in Inghilterra My summer of love (2004) ed in Francia La femme du cinquieme (2011) e realizza la sua opera più matura, complessa, sincera.

Con un bianco e nero pallido e poco contrastato ed un formato stretto, da cinema verità, usa la forza espressiva del cinema con una maestria ed un rigore assoluti.

La macchina da presa sa sempre cosa inquadrare, usa lo spazio, il paesaggio ed i volti degli attori in una composizione di piani che lascia senza fiato.

I protagonisti occupano spesso la parte bassa dell’inquadratura, sono come rinchiusi in un angolo, lo sguardo di Pawlikowski è capace di coglierne espressioni, particolari, increspature.

Persino nei momenti più drammatici la sua inquadratura rimane immobile, respingendo qualsiasi intento melodrammatico.

Solo nell’ultima scena, la macchina da presa si libera da ogni costrizione e viaggia libera, a mano, inquadrando la protagonista. E’ il segno di una consapevolezza nuova, di una maturità forse raggiunta e conquistata nel dolore della perdita e nell’amore verso gli altri.

Ispirandosi tanto a Bresson, quanto ad Antonioni, Pawlikowski sembra guardare naturalmente anche al cinema polacco di quegli anni ’60, da Kawalerowicz a Wajda.

Il film naturalmente gioca di sottrazione con i contrasti di quegli anni: quello tra la vita religiosa e la religione di Stato, tra la mondanità chiassosa e triste del giudice e la solitudine determinata e silenziosa della nipote, quello tra l’identità ricostruita nel tempo e quella originale.

Tutto è risolto con grande naturalezza, senza eccessi ideologici e senza tesi da esporre, ma con un racconto lieve, commosso.

In soli 80 minuti, Pawlikowski è capace di mettere in scena i conflitti di un intero paese e quelli di ogni adolescente.

Non avrebbe potuto farlo senza la sua protagonista, Agata Trzebuchowska, una Ida dai grandi occhi neri e dai capelli rossi, che possiamo solo immaginare nel bianco e nero firmato a quattro mani da Ryszard Lenczewski e dall’esordiente Lukasz Zal, promosso direttore della fotografia sul campo, quando il primo si è ammalato.

Una nota di merito anche a Parthenos e Lucky Red che l’hanno distribuito anche in Italia: un gioiello da non perdere.

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