Cannes 2024. Oh, Canada

Oh, Canada *1/2

Il grande documentarista politico Leonard Fife è vicino alla fine dei suoi giorni. Malato terminale e allettato, ha accettato la proposta di due suoi celebri alunni, a loro volta premiati filmakers, di partecipare ad una lunga intervista per raccontare la sua vita.

Malcolm e Diana preparano così il set, secondo il metodo che Fife aveva ideato, in modo che il silenzio, il buio e la mancanza di contatto visivo con il documentarista spinga l’intervistato ad aprirsi e a raccontare anche quello che avrebbe preferito tacere.

Con Leonard però non c’è questo rischio, perché l’uomo è deciso a raccontare tutto, alla presenza della moglie Emma, compagna di corso di Malcolm e Diana.

Leonard è noto per aver lasciato gli Stati Uniti rifiutando la chiamata alle armi e rifugiandosi in Canada, dove la sua carriera è decollata proprio con un lavoro sulle sperimentazioni dell’Agente Orange utilizzato dagli USA nella guerra del Vietnam.

Alle sue spalle però Leonard lasciava nel 1968 una prima moglie, una seconda compagna e un figlio piccolo, mai riconosciuto.

Gli scheletri del suo passato turbano la moglie Emma. Difficile comprendere i meccanismi della memoria, quando la malattia è in uno stato così avanzato. Leonard rivendica più volte di raccontare il vero, ma il suo segreto più meschino rimane infine sepolto alla fine della lunga giornata di riprese.

Il film di Schrader, tratto dal romanzo di Russell Banks, è un tentativo completamente fallito di trasportare la realtà romanzesca creata dall’autore sul grande schermo.

Cosa è reale e cosa è inventato o solo mal ricordato, quanto pesa la malattia e quanto invece il desiderio di confessare tutto: sono domande che il film lascia sospese, mescolando attori, tempi, riprendendo più volte il racconto della fuga e mescolando vorticosamente le linee narrative senza riuscire ad evitare una sensazione di approssimazione e di completo disinteresse per il suo protagonista, il quale è semplicemente un uomo come tanti, con un passato che vorrebbe dimenticare alle sue spalle.

Di Leonard Fife ci interessa poco, anche perché la sua attitudine verso il suo lavoro è terribilmente diminutiva e la sua ostinazione a raccontare si scontra con una confusione che non aiuta a calibrare il peso delle rivelazioni.

Stendiamo poi un velo su come è rappresentato il lavoro del documentarista, sulla superficialità e la disonestà che Schrader suggerisce, come elemento comune a tutti i cineasti del suo film.

Le frecciate al lavoro di Ken Burns e di Errol Morris se le poteva anche risparmiare: restano piccoli regolamenti di conti fra colleghi che suonano meschini.

Il film è pasticciato, breve eppure terribilmente risaputo, incapace di comunicare alcunché di realmente significativo.

Gere cerca di dare spessore ad un personaggio che è semplicemente un codardo, gli altri a partire da Uma Thurman sono del tutto accessori e non riescono mai ad avere una dignità propria.

Anche Leonard è un uomo in cerca di perdono e redenzione, come molti dei personaggi del cinema di Schrader, ma le sue motivazioni sono davvero piccole e le sue colpe tutto sommato comuni.

Anche quello che non confessa, che fa cadere la premessa maggiore del suo eroico esilio canadese, pare voler solamente decostruire il mito dei renitenti alla leva che rifiutarono il Vietnam per nobili motivi ideali, piuttosto che raccontare qualcosa di Leonard.

Alla fine non resta che prendere atto che pur cambiando strada rispetto all’ultima notevole trilogia iniziata da First Reformed e chiusa da Il maestro giardiniere, Schrader non ha davvero nulla da dirci e lo fa persino male, in un film senile nel peggior modo possibile.

Demistificante e terminale.

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