The Walk

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The Walk **1/2

La lunga carriera di Robert Zemeckis è cominciata negli anni ’70 come sceneggiatore e attraverso il sostegno di Spielberg e della Amblin ha superato i primi rovesci, sino ad approdare ai trionfi di Ritorno al futuro e Chi ha incastrato Roger Rabbit?

I suoi diciassette film da regista sono spesso disordinati, apparentemente lontani per scopi e ambizioni, esiti e premesse, ma se proprio si vuole cercare un filo conduttore capace di legarli, si può ricercare nel rimpianto nostalgico per un passato idealizzato e nella forza della tecnica e della magia al servizio della storia e talvolta persino più grande di questa.

Se i suoi primi film sono commedie che affondano la propria vena nell’innocenza dell’america degli anni ’50 e ’60, le sue opere hanno poi lavorato molto sui generi, passando dalla fantascienza al conte morale, dall’horror al thriller alla fiaba dickensiana.

Quello che non è mai cambiata è la passione per lo spettacolo capace di stupire, emozionare, travolgere lo spettatore: e allora i viaggi nel tempo della De Lorean, la contiguità di reale e immaginario di Roger Rabbit, il morphing de La morte ti fa bella e Forrest Gump, i messaggi tridimensionali di Contact, fino al vuoto trittico in performance capture, il punto più basso della sua carriera, ma contemporaneamente il vertice del suo sperimentalismo: il cinema senza l’attore.

In questo lungo percorso sempre rivolto alla ricerca di qualcosa di mai visto prima, Zemeckis non poteva che approdare da un lato al 3D e dall’altro alla storia di Philip Petit, già raccontata mirabilmente nel documentario di James Marsh, Man on wire.

Le possibilità straordinarie di abbinare la profondità della terza dimensione alle magie del funambolo francese deve aver illuso anche questa volta Zemeckis che tutto il resto fosse accessorio. Ed allora il racconto procede in modo molto tradizionale sino a quegli esplosivi quaranta minuti finali nei quali il prodigio tecnico e la bellezza della performance sono capaci di trasformare un film del tutto ordinario in un’opera seminale, feconda, imperdibile.

Philip Petit era un giovane funambolo dilettante nella Parigi degli anni ’70. Dopo aver appreso i segreti dell’arte del filo sospeso da Papà Rudy, l’anziano maestro di una famiglia di acrobati, decide di trasformare le sue piccole esibizioni in qualcosa di molto più grande: tende un filo di notte tra le due torri di Notre Dame e la mattina presto si esibisce per un pubblico incredulo.

Ma il suo grande sogno è New York: le torri gemelle del World trade Center ancora in costruzione, sono il richiamo impossibile e inevitabile, per chi ha scelto il gesto anarchico e totale, come affermazione di sè.

E’ una questione d’identità naturalmente: Philippe cerca la sua sua dopo una vita di trucchi ed esibizioni dans la rue, le torri di vetro e acciaio cercano la loro nello skyline di New York. Anche attraverso il gesto grande di Petit diventeranno non solo il simbolo di una città, ma quello della nostra stessa modernità.

La loro verticalità è essa stessa sfida e esibizione: l’incontro con l’orizzontalità del filo teso da Petit le renderà finalmente parte di un contesto interamente astratto, simbolico.

Zemeckis gioca con le traiettorie di sguardo e usa il 3D come mai nessuno prima d’ora, grazie al senso costante di vertigine che lo sguardo verso il basso di Philippe provoca nello spettatore. Orizzontale e verticale riportano l’esperienza visiva all’essenzialità cartesiana, sia pure in contesto di grande spettacolo, di profonda fascinazione visiva.

The Walk è pieno di difetti ed è del tutto incapace di replicare la tensione e l’ansia da thriller di Man on wire, ma al contrario di quest’ultimo, ha la possibilità di ricostruire quella passeggiata tra le nuvole, ricordandoci di colpo quanto sia potente la forza del cinema e quanto la lezione di Méliès sia ancora oggi necessaria.

Laddove il capolavoro di Marsh era costretto a fermarsi, mostrando solo le poche foto scattate la mattina di quel 6 agosto 1973, il film di Zemeckis riparte per farsi sogno di libertà e sfida illuminista ai nostri limiti, alla nostra minorità auto-imposta, per dirla con Kant.

La passeggiata di Petit diventa allora quella di chi cerca un equilibrio impossibile ed è quindi costretto a rimanere sospeso, perchè solo lì, nella ripetizione della recita è capace di trovare se stesso.

In fondo è anche la condizione di Zemeckis, costretto ad andare avanti e indietro sul filo della sua magnifica ossessione.

Da non perdere.

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