Taxi Teheran

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Taxi Teheran ***1/2

«Le restrizioni sono spesso fonte d’ispirazione per un autore poiché gli permettono di superare se stesso. Ma a volte le restrizioni possono essere talmente soffocanti da distruggere un progetto e spesso annientano l’anima dell’artista. Invece di lasciarsi distruggere la mente e lo spirito e di lasciarsi andare, invece di lasciarsi pervadere dalla collera e dalla frustrazione, Jafar Panahi ha scritto una lettera d’amore al cinema. Il suo film è colmo d’amore per la sua arte, la sua comunità, il suo paese e il suo pubblico»
Darren Aronofsky, 2015

Jafar Panahi è stato arrestato il 2 marzo 2010, per aver partecipato alle manifestazioni di protesta contro il regime di Ahmadinejad. Rilasciato su cauzione solo il 24 maggio, dopo la mobilitazione delle organizzazioni a difesa dei diritti umani e del mondo del cinema internazionale, è rimasto confinato nel proprio appartamento fino al 20 dicembre dello stesso anno, quando viene condannato a 6 anni di reclusione: gli viene inoltre preclusa la possibilità di dirigere, scrivere e produrre film, viaggiare e rilasciare interviste per 20 anni.

Ma Panahi non si è mai arresto, ha filmato se stesso agli arresti domiciliari, ha cercato di fare cinema con i pochi strumenti che aveva a disposizione ed ha fatto uscire clandestinamente dal paese i suoi film perchè potessero essere visti, avere una vita, potessero affermare la sua esistenza in vita, come uomo e come artista: This is not a film fu mostrato a Cannes nel 2011, Closed Curtain invece è arrivato due anni dopo a Berlino vincendo il premio per la migliore sceneggiatura.

Taxi Teheran si è aggiudicato l’Orso d’Oro lo scorso mese di febbraio.

Il film è un piccolo capolavoro, senza mezzi termini, la summa di tutta la carriera dell’ancora giovane regista, un grande racconto di cinema e di vita, un segno d’artista ed un gesto politico assieme, che procede sul confine tra realtà e rappresentazione come tutto il grande cinema iraniano ci insegnato a fare nel corso degli ultimi 25 anni.

Panahi ricorda la lezione del maestro Kiarostami, con il quale aveva cominciato sul set di Sotto gli ulivi e con il quale aveva collaborato per Oro rosso, e si mette alla guida di un taxi, nel quale posiziona tre macchine digitali nascoste, riprendendo le storie dei passeggeri di una giornata speciale.

Ma nulla è davvero lasciato al caso: questo è un film vero, sapientemente scritto, pensato, montato, non il gesto disperato e vitalistico di un uomo recluso e privato della propria identità. Il discorso politico non sovrasta mai la riflessione sulle immagini, anzi se ne nutre. Panahi non abdica al suo statuto autoriale, ma lo rafforza, paradossalmente, ripercorrendo in questo suo ultimo film le ossessioni di tutta una vita.

Si comincia con un uomo ed una donna che discutono di giustizia, della sharia e dell’esemplarità della pena. In auto sale poi un piccolo trafficante di film pirata, che consente agli studenti di cinema ed allo stesso Panahi di poter vedere le opere dei grandi autori e quelle dei registi americani.

Quindi salgono due donne che devono assolutamente tornare alla fontana dove hanno preso due pesciolini rossi, che vogliono liberare.

Panahi quindi raggiunge la nipotina che lo aspetta all’uscita dalla scuola e che ha il compito di girare un cortometraggio per la propria insegnate, purchè sia “distribuibile”: rispetti cioè le regole di decenza che la censura iraniana si è data.

Panahi quindi incontra un vecchio amico che è stato picchiato e derubato da una coppia mascherata, ma che inavvertitamente, nella colluttazione, ha riconosciuto.

Infine vediamo la donna delle rose, l’avvocato che ha difeso Panahi ed è finita lei stessa in carcere, sospesa dal proprio ordine, che ora assiste una ragazzina, arrestata perchè voleva assistere ad una partita di pallavolo.

Come è evidente a chiunque conosca, anche solo superficialmente, il cinema di Panahi, in ciascuno dei passeggeri c’è un’eco dei suoi film del passato, dal pesce rosso de Il pallocino bianco alla bambina de Lo specchio, esplicitamente citato, dalle donne che vogliono vedere la partita di calcio di Offside al delitto e castigo di Oro rosso, fino alla riflessione sulla condizione femminile de Il cerchio.

Ma soprattutto c’è l’idea, rubata a Kiarostami, del viaggio in auto, tra Dieci e Il sapore della ciliegia, il dialogo impossibile tra passeggeri, la vita che si fa strada attraverso le parole dette ad uno sconosciuto, il cinema che irrompe con tutta la sua forza e si fa cornice vertiginosa di senso.

Sembrerebbe un film-testamento, questo Taxi Teheran: una commedia umana profondamente necessaria, in cui il regista si espone in prima persona, con il suo volto serafico e il sorriso sornione e partecipe, scrivendo a noi spettatori una lettera piena di amore e comprensione, senza mai una parola di rabbia o di rimpianto.

Quasi che essere di nuovo su un set, sia pure quello piccolissimo di un’auto, e poter di nuovo raccontare quello che gli sta più a cuore, fosse davvero l’unico modo possibile per venire a patti con un destino crudele e una condanna incomprensibile.

Eppure Taxi Teheran è un gioiello di leggerezza e di sensibilità umana, che non fa mai pesare sullo spettatore i suoi limiti e le sue buone ragioni.

E’ un atto di fede nel cinema e nel coraggio delle persone, tanto essenziale e bello, come la rosa rossa lasciata sul cruscotto del taxi.

Non perdetelo per nessun motivo.

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