Il Club

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Il Club ***1/2

In una casa affacciata sul mare di La Boca, vivono quattro uomini e una donna, Monica.

Sono tutti uomini di chiesa, preti sconsacrati, allontanati dal proprio servizio e confinati nel piccolo paese sulla costa cilena, ad espiare i propri peccati.

Non possono avere contatti con gli abitanti del paese: la loro routine è quasi tutta confinata negli spazi angusti della piccola villetta.

A dare un senso alle loro giornate c’è un bellissimo levriero, che padre Vidal ha addestrato alla corsa e che partecipa alle gare che si svolgono in paese: il gruppo dei reclusi scommette sulle sue imprese con un certo orgoglio, sognando piste più prestigiose, regionali e nazionali.

Improvvisamente una mattina arriva un nuovo inquilino, padre Matias Lazcano: ma non è solo.

Un uomo, un poco di buono sempre ubriaco, lo ha seguito sino a La Boca. Si fa chiamare Sandokan: si apposta sotto le finestre della casa e comincia a raccontare ad alta voce la sua storia sconvolgente di abusi e violenze sessuali.

L’atmosfera nella casa diventa presto insostenibile e i quattro affidano a Padre Lazcano una pistola, per spaventare Sandokan e farlo andar via.

Le cose andranno diversamente e da Santiago arriverà uno psicologo, il gesuita Padre Garcia, per cercare di far luce sull’accaduto.

Nelle lunghe sessioni con i quattro religiosi, padre Garcia farà venire in superficie le colpe di ciascuno: l’omosessualità, le connivenze con il potere, le violenze ed il traffico di bambini.

Ma l’intransigenza del gesuita dovrà fare i conti con una realtà assai meno chiara: lui stesso finirà travolto dai dubbi e dalla tentazione.

Il nuovo film di Pablo Larrain si apre con una citazione dalla Genesi, “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre“. Ma non bisogna prenderlo alla lettera: è solo il primo dei suo paradossi. Luce e tenebre infatti sono qui completamente indistinguibili.  E mano a mano che il film prosegue la luce si fa sempre più fioca, fino a scomparire del tutto in una notte di sangue e tradimenti, che si risolverà in un’alba amarissima.

El Club 3

Lo sguardo di Larrain è ancora una volta risoluto e di grande potenza drammatica. Coraggioso e incapace di mediazioni, il film è tutto girato con un particolare obiettivo, già usato da Tarkovsky: Sergio Armstrong, il fidato direttore della fotografia, ha usato quasi sempre il controluce, avvolgendo i protagonisti in un azzurro indistinto e spesso fuori fuoco, che come una nebbia confonde il giorno e la notte, l’alba e il tramonto.

I bellissimi piani frontali isolano i personaggi e li mettono letteralmente con le spalle al muro, schiacciati da una macchina da presa che li costringe a fare i conti con l’ipocrisia, tutta cattolica, del peccato e del perdono.

Larrain fa grande cinema politico, ma non è mai militante o manicheo: la sua visione è naturalmente complessa, stratificata, fortemente simbolica e irrimediabilmente universale.

Non c’è dubbio che quella piccola casa sul mare di La Boca rappresenti non solo le responsabilità morali e politiche della Chiesa Cattolica, la sua fallibilità troppo umana e i suoi silenzi complici, ma anche quelle assai più grandi dell’intero paese, che ha occultato le proprie colpe e le proprie responsabilità.

Dopo la sensazionale trilogia dedicata agli anni di Pinochet (Post Mortem, Tony Manero e No), Larrain sembra uscire dalla Storia per entrare nella cronaca, ma il suo rimane invece un cinema, che parla alla coscienza dei suoi spettatori, con una forza morale pari solo a quella poetica.

La direzione degli attori è come sempre superlativa: accanto al suo alter ego, Alfredo Castro, nella parte di Padre Vidal, maestro della dissimulazione e della repressione, ed alla moglie Antonia Zegers, in quella di suor Monica, questa volta c’è il sorprendente Roberto Farias, che interpreta Sandokan.

Con una voce cantilenante, particolarissima, che non si dimentica e che sarebbe impossibile tradurre, Farias, barbuto e corpulento, è il fantasma che sconvolge la routine della casa, il convitato di pietra che finirà per sedersi davvero al desco dei padri, il contrappasso necessario per espiare le colpe collettive e l’unica possibilità di restaurare una fede, che tutti sembrano aver dimenticato.

Il suo Sandokan è un personaggio pasoliniano, disperatissimo e innocente, sbandato e misterioso, profondamente umano.

Nel doloroso e disturbante racconto di Larrain, nel quale il cattolicesimo diventa così metafora dell’intera società, incapace di confrontarsi con il mondo esterno, chiusa in stanchi rituali autoreferenziali, si scorge un’eco tanto della rimozione colpevole dell’Indonesia di The Act of Killing, quanto degli esercizi spirituali di Todo Modo, vero segno infranto del cinema italiano, filmato da Petri e Sciascia e destinato all’oblio, dopo il sequestro di via Fani e i 55 giorni di prigionia di Aldo Moro.

Solo che, rispetto all’opzione documentaristica di Oppenheimer – che indaga la realtà attraverso il cinema – e all’ironia feroce e surreale di Petri – che vuol far esplodere tutte le contraddizioni tra l’idea mistica e le pratiche di bassa politica – Larrain sceglie una strada ancora diversa, nella quale è l’originalità della messa in scena e dello sguardo, a mostrare fino in fondo le ipocrisie e la rimozione collettiva della propria identità e della fede.

Nelle sue immagini, che lo schermo non sembra riuscire a contenere o a mettere a fuoco davvero, c’è tutta l’evidenza del suo discorso, nel quale il cinema non è mai un mezzo e la peculiarità della forma serve a dare ancora più forza al discorso politico.

Il suo è davvero uno sguardo inesausto, che non si accontenta mai, che non semplifica e che vuole farci vedere il mondo con occhi nuovi.

Imperdibile.

El Club 2

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