Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate

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Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate *1/2

Le  avventure di Bilbo Baggins, Thorin Scudodiquercia e della Compagnia dei Nani di Erebor, trovano nell’ultimo episodio de Lo Hobbit la loro definitiva conclusione.

Il viaggio, cinematograficamente lunghissimo, con il quale i protagonisti hanno lottato per la restituzione delle vaste ricchezze della loro madre patria si conclude con una battaglia, che vorrebbe essere epica, capace di coinvolgere cinque armate: nani, elfi, uomini, orchi e mannari (peraltro mai evocati nel corso del film).

La desolazione di Smaug, il secondo capitolo di questa infinita nuova trilogia tolkeniana, terminava con il risveglio del drago, la cui ira minacciava di scaglirsi contro gli uomini indifesi di Pontelagolungo.

Con un cliffhanger degno delle peggiori serie televisive, la storia si era interrotta proprio a metà, lasciando tutti con l’amaro in bocca.

La battaglia delle cinque armate riprende esattamente da dove si era interrotta la narrazione e l’incipit, che ben avrebbe dovuto essere l’excipit del capitolo precedente, è la parte più interessante del film, grazie alla magnifica creazione digitale, che ci ricorda quanto grandi siano le potenzialità della tecnica applicata e del lavoro sul volto e l’espressività degli attori, di cui Jackson con Serkin è stato un pioniere.

Ucciso il drago, il film si adagia su un doppio registro narrativo e drammatico: da un lato la battaglia del titolo che dura un paio d’ore, francamente interminabili, dall’altro gli alleggerimenti comici e melò, affidati al personaggio di Alfrid “leccasputo” ed all’elfo Tauriel, non a caso due personaggi inventati da Jackson.

Dopo aver ceduto alla malattia del drago, il Re Sotto la Montagna, Thorin Scudodiquercia, sacrifica amicizia e onore nella ricerca della leggendaria Arkengemma. Incapace di aiutare Thorin a trovare la ragione, Bilbo è costretto a compiere una scelta disperata, inconsapevole del pericolo ancor più grande che lo attende.

Intanto a Dol Guldur, Galadriel e Saruman liberano Mitrandir-Gandalf, soggiogato dal Negromante, che altri non è se non il solito occhio di fuoco, Sauron.

Il Signore Oscuro è deciso a prendersi il tesoro e manda in avanscoperta legioni di Orchi per attaccare la Montagna Solitaria.

Mentre cala il buio sul conflitto, le razze dei Nani, Elfi e Umani devono decidere se rimanere uniti o essere distrutti.

Esattamente come era accaduto per Il Signore degli Anelli – su una scala diversa – anche in questa seconda trilogia il primo capitolo promette una magia, che gli altri episodi non sono capaci di mantenere.

Anche questa volta ad un secondo capitolo interlocutorio e furbo segue una conclusione scontata, rumorosa e vuota.

La famosa battaglia finale è di una noia mortale, persino mal coreografata e nemmeno particolarmente curata dal punto di vista degli effetti digitali.

I micidiali e temutissimi orchi muoiono come zanzare ed il tutto si risolve alla fine in un paio di duelli, che vedono protagonisti Thorin e gli elfi Legolas e Tauriel.

Dopo il primo episodio ci auguravamo che quello non fosse la parte migliore di questa seconda trilogia; dopo il secondo avevamo già fiutato la fregatura; questo terzo capitolo non fa altro che confermare la povertà immaginativa di Jackson, che ha inventato un mondo con La compagnia dell’anello l’ha ripetuto stancamente per altri cinque capitoli, senza alcuna capacità di sintesi e con il fiato sempre più corto.

L’autore di Bad Taste non è mai stato un narratore particolarmente raffinato, ma Il Signore degli Anelli ha buoni momenti di cinema, persino per un critico disincantato e non tolkeniano come il vostro, annegati purtroppo tra Barbalberi e battaglie interminabili, nelle quali non succede praticamente mai nulla.

Ma quello che un adattatore letterale come Jackson non sembra aver compreso è che Lo Hobbit non è Il Signore degli Anelli: Tolkien l’aveva scritto 17 anni prima come una sorta di favola per bambini. Jackson invece ne ha fatto un prequel infinito alle avventure di Frodo e della compagnia dell’anello, senza alcuna soluzione di continuità, con lo stesso stile cupo e tragico.

Persino la follia che si impossessa di Thorin una volta conquistato il tesoro sotto la montagna è ricalcata sull’ossessione di Smeagol per l’anello.

Tutto quello che c’è di buono in questo ultimo Lo Hobbit è comunque derivativo. L’originalità si è persa probabilmente il giorno in cui Guillermo Del Toro ha abbandonato il progetto, messo in stand by dalla crisi della Mgm: la leggerezza e lo spirito fanciullesco del regista messicano avrebbero giovato al film ed avrebbero reso meno inutile e stucchevole questo ennesimo ‘ritorno dell’identico’.

Una delusione annunciata.

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