The Grand Budapest Hotel

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The Grand Budapest Hotel ***1/2

L’unico rischio che corre Wes Anderson, giunto al suo ottavo lungometraggio in quasi vent’anni di carriera, è una prematura canonizzazione.

I suoi film sono così immediatamente riconoscibili, così meravigliosamente originali per gusto scenografico e cura dei dettagli, che persino il grande pubblico ha finito per accorgersi di uno dei talenti più puri del panorama indie americano.

Gli attori di Hollywood fanno a gara per essere nei suoi film, anche in ruoli piccolissimi, marginali, persino di una sola battuta, come accadeva solo a Woody Allen ed all’ultimo Altman.

E così i suoi racconti corali sono diventati ancor più ampi e ricchi, da ogni punto di vista.

Questo The Grand Budapest Hotel sembra essere la summa del suo cinema umanista e malinconico: c’è un racconto avventuroso che guida il protagonista ed il suo giovane aiutante, c’è una ricchezza scenografica che sfrutta sontuosamente l’apparente minimalismo di bozzetti e miniature, c’è un cast pressochè sterminato di comprimari e ci sono le musiche di Alexandre Desplat ed il fascino antico della Mitteleuropa sull’orlo della guerra.

E c’è ovviamente un altro straordinario microcosmo, rappresentato dal Grand Budapest Hotel, un albergo sulla vetta delle alpi, in un immaginario stato chiamato Zubrowka, che ha fatto da sfondo alle rivoluzioni della Storia, cambiando faccia molte volte, per adattarsi ad una realtà in continua evoluzione.

Tutto parte dal venerato autore di un romanzo, che ha raccontato la storia dell’hotel. Il film ci porta indietro negli anni e lo ritroviamo più giovane, alla fine degli anni ’60, ospite di una struttura ormai decaduta e riconvertita forse alla plumbea essenzialità sovietica.

In quell’occasione fa la conoscenza di Zero Moustafa, l’anziano padrone, che di tanto in tanto fa visita al suo hotel per occupare una piccola stanza della servitù, nonostante ne sia in proprietario.

Una sera, a cena, Monsieur Moustafa finisce per raccontare all’autore la sua storia e quella dell’hotel.

Assunto come garzoncello negli anni ’30, quando la struttura era diretta impareggiabilmente da Monsieur Gustave H. e risplendeva di classe ed eleganza, il piccolo Zero diventerà presto l’uomo di fiducia del concierge, accompagnandolo in un viaggio straordinario, tra vedove assassinate ed eredità contese, quadri rubati e nazisti feroci, investigatori privati senza scrupoli e compagni di carcere coraggiosi e tatuati.

Zero troverà anche il modo di innamorarsi di Agatha, la bella assistente del pasticcere, il burbero Mendl, che l’aiuterà a superare ogni difficoltà.

Non vogliamo svelare nulla della travolgente avventura di Gustave e di Zero, perchè il piacere più grande è proprio quello di lasciarsi sorprendere dalle tappe del loro tour de force.

Anderson guarda ai racconti di Stefan Zweig, citato esplicitamente in esergo, e costruisce il suo film più maturo, stratificato, riuscendo a mantenersi sempre in perfetto equilibrio tra sorriso e dramma, con una leggerezza che sarebbe piaciuta al nostro Calvino.

I suoi film sono come magnifiche e preziose case di bambola, opere da ammirare più che da amare davvero.

Ralph Fiennes nei panni di Gustave H. e la rivelazione Tony Revolori in quelli di Zero Moustafa sono una coppia maestro/allievo da antologia.

Il concierge è un donnaiolo vanesio ed di grande successo, che gestisce il Grand Budapest Hotel con eleganza e sapienza magistrali, ma è anche un uomo di parola, generoso sino al sacrificio personale, oratore travolgente, pieno di risorse ed appassionato di poesia romantica.

Ma la forza del film sta nel suo continuo confronto con un mondo che sembra non condividere più il suo codice morale, sull’orlo della Seconda Guerra Mondiale.

Anderson è capace di regalare ad ognuno dei suoi comprimari un momento speciale e la cura maniacale nella costruzione drammatica si unisce a quella per il decor bidimensionale, il trucco ed i costumi, capaci da soli di evocare un carattere, un sentimento. Così anche il più piccolo dei ruoli non è mai insignificante.

Impossibile non ricordare almeno Willem Dafoe, nei panni dello spietato killer Jopling e Jeff Goldblum, in quelli dell’avvocato tutto d’un pezzo Kovacs.

Tre cameo anche per le icone del cinema di Anderson: Bill Murray, Owen Wilson e Jason Schwartzman.

The Grand Budapest Hotel conferma la straordinaria grazia dell’autore ed il suo talento di narratore: le ossessioni rimangono le stesse di sempre. Nella sua grande commedia umana ci sono ancora famiglie disfunzionali e parenti crudeli, padri putativi esuberanti e bisognosi d’aiuto, giovani affamati di vita e di avventura ed amori adolescenziali destinati ad essere ricordati in eterno.

Da non perdere.

Orso d’argento al Festival di Berlino.

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