Avatar: Fuoco e cenere

Avatar: Fuoco e cenere **

“È del poeta il fin la meraviglia (parlo de l’eccellente e non del goffo): chi non sa far stupir, vada alla striglia!”

La celebre terzina del napoletano Giovan Battista Marino, scritta nel 1619, all’apice del Barocco, si presta perfettamente per l’esergo di Avatar – Fuoco e cenere, terzo capitolo di una saga cominciata ben sedici anni fa con il film più ricco della storia e proseguita solo nel 2022 con un sequel altrettanto fortunato.

James Cameron il padre di Terminator e del Titanic, si è trovato così a suo agio nel mondo di Pandora, da immaginare una pentalogia che forse tuttavia non concluderà personalmente, lasciando ad altri i due capitoli finali.

Poco importa, in realtà, perché uno dei filmmakers più visionari del suo tempo, un innovatore che nella sfida continua ai limiti del visibile e del rappresentabile ha costruito il suo clamoroso successo, ha deciso di dedicare il ventennio della sua maturità artistica ad Avatar e ai suoi personaggi, con uno sforzo che gli incassi, i premi e la fortuna hanno ripagato ampiamente, ma che – arrivato al suo terzo appuntamento – comincia a mostrare il fiato un po’ corto.

Nella magniloquenza imponente con cui si presenta al pubblico Fuoco e cenere cerca di occultare la sensazione di trovarsi di fronte a uno spettacolo non così meraviglioso come ci saremmo aspettati, se non per la lunga scena con delle navi-mongolfiera che strappa l’applauso.

Se il primo Avatar si muoveva nella dicotomia degli elementi di terra e aria e il secondo esplorava soprattutto quello dell’acqua, questo terzo sin dal titolo evoca il fuoco, ma lo fa come se fosse un atto dovuto più che per assecondare una effettiva ispirazione narrativa.

Ritroviamo la famiglia Sully sulla barriera corallina abitata dai Metkayina a piangere la morte prematura del figlio più grande: il fratello Lo’ak, che è anche voce narrante di questo episodio, si sente in colpa per aver creato le condizioni della sua scomparsa; Kiri – la figlia della Dott.ssa Grace Augustine adottata dai Sully – scopre nuovi poteri impensati e pericolosi; la madre Neytiri è chiusa in un lutto impenetrabile e il padre Jack, ex marine trasformatosi permanentemente nel suo Avatar Na’vi, cerca di concentrarsi sulle cose da fare per difendersi dalla probabile nuova vendetta del Colonnello Miles Quaritch.

Quest’ultimo troverà un nuovo alleato in Varang, la leader Na’vi del clan del fuoco e della cenere.

Nel frattempo i militari cercano Spider, il figlio ribelle di Quaritch, anche lui ormai parte della famiglia Sully, che grazie ai poteri di Kiri ora è in grado di respirare autonomamente su Pandora, e si preparano alla mattanza dei Tulkun, i grandi cetacei che vivono nelle acque del pianeta. Jack sarà costretto a vestire i panni del guerriero Toruk Makto ancora una volta, ma neanche questo sarà sufficiente.

La centralità dei Sully nella lotta senza fine con il colonnello e con gli umani, consente di costruire diverse sottotrame nel momento in cui quell’unità si rompe, viene messa in discussione e la storia isola i diversi protagonisti in percorsi individuali che poi tornano sempre a rafforzare l’unità familiare.

Il racconto evoca sacrifici da antico testamento, gioca sui sensi di colpa, sulle scelte migliori per salvaguardare l’ecosistema di Pandora, anche a costo di mettere in discussione i principi personali, ma poi si risolve in una grande battaglia finale che occupa gli ultimi 45 minuti, mescolando i quattro elementi dei film precedenti, nel tentativo di replicare ed espandere, quello che aveva funzionato benissimo in passato.

Nonostante l’evocazione panica di una grande madre, che questa volta appare brevemente in una sorta di impossibile citazione del feto astrale kubrickiano, alla fine Cameron riduce tutto ad un enorme scontro armato in cielo, sul mare e nelle sue profondità, che si risolve quando la pacifica Kiri ordina a degli enormi cefalopodi alleati: “sterminateli tutti“.

La sensazione costante, anche nei momenti migliori di questo terzo Avatar, è di trovarsi di fronte a qualcosa di già visto: non c’è davvero nulla che riempia gli occhi di stupore. Lo sforzo creativo appare limitato. Non ci sono mondi nuovi da esplorare: continuiamo a frequentare quelli già conosciuti, sempre nello stesso modo, con gli stessi personaggi e le medesime dinamiche.

Certo, Fuoco e cenere è un film di figli, che sembra segnare un passaggio di testimone tra le generazioni, con gli eredi ansiosi di dimostrare il proprio valore a genitori chiusi in un paternalismo militarista e di clan da vecchio mondo. Ma poi quando finalmente tocca a loro, gli strumenti sono sempre gli stessi, le psicologie ripetono il già noto.

Lo stesso spirito anticolonialista ed ecologista del primo episodio rimane piuttosto annacquato questa volta, in secondo piano rispetto a motivazioni personali e vendette private. L’insistenza militarista evoca conflitti vicini e drammatici dei nostri giorni, ma lo fa senza coraggio, in modo vaghissimo e pudico, senza rischiare di mettere in imbarazzo l’enorme pubblico potenziale a cui il film di rivolge.

Cameron e il suo nutrito gruppo di soggettisti e sceneggiatori (Rick Jaffa, Amanda Silver, Josh Friedman e Shane Salerno) avevano scritto secondo e terzo capitolo come un film unico per poi scegliere di dividerlo in due parti, ma la realtà è che non vi era necessità alcuna di aggiungere i 197 minuti di Fuoco e cenere ai 192 de La via dell’acqua, se non per un desiderio bulimico e per una certa malcelata avidità produttiva.

Purtroppo i limiti dell’operazione si vedono tutti.

Tuttavia l’ultima parola spetta al pubblico in sala. Vale sempre l’adagio: mai scommettere contro Cameron.

Da parte nostra speriamo solo che il regista abbandoni l’idea di nuovi capitoli e si dedichi davvero ai Ghosts of Hiroshima, come promesso a uno degli ultimi sopravvissuti della bomba.

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