La sua vita finì silenziosamente, come era iniziata.
Robert Grainier nasce alla fine dell’Ottocento, senza sapere bene dove e quando e senza mai conoscere i propri genitori. Orfano da bambino, vagabondo solitario e di poche parole da adulto, cresce a Bonners Ferry in Idaho lungo la tratta della Great Northern Railway per cui lavora come taglialegna, fino al giorno in cui a messa incontra l’incantevole Gladys.
I brevi momenti di felicità con lei, il sogno di una piccola casa nel bosco lungo il fiume Moyie, infine la gioia di una figlia Kate si alternano ai lunghi periodi di lavoro, funestati da incidenti, vendette, solitudine.
Ogni ritorno a casa rende più difficile il viaggio successivo e acuisce la sensazione che Robert stia perdendo la parte migliore della sua vita. Ma i piccoli lavoretti in paese non sono sufficienti alle necessità della sua famiglia e il sogno di aprire una segheria lo spinge ancora una volta lontano.
Al suo ritorno tuttavia troverà la casa avvolta dalle fiamme: nessuna traccia di Gladys e Kate. Devastato dal dolore e incapace di piangere sui corpi che non troverà mai, aspetterà invano il ritorno della moglie e della figlia.
Il secondo film da regista del quarantenne Clint Bentley, scritto assieme a Greg Kwedar, è tratto dal romanzo breve di Denis Johnson, le cui pagine innervano la voce off che accompagna costantemente il racconto cinematografico.
Train Dreams è un western dello spirito: dopo aver debuttato al Sundance è stato acquistato da Netflix, che mortifica la bellezza inconsueta del suo 1,46:1, chiudendola negli schermi di casa, invece di inondare di luci e ombre le sale cinematografiche, dove un lavoro di tale ricchezza, profondità e bellezza avrebbe meritato di apparire per la prima volta al pubblico.
Lo stile semplice, diretto e lineare di Johnson trova il suo correlativo oggettivo in una messa in scena contemplativa, di grande fluidità narrativa, capace di esaltare lo straordinario paesaggio naturale nel quale Bentley immerge i suoi personaggi, evocando ad ogni passo la sensibilità di Terrence Malick.
Nel racconto della vita di Robert Grainier ci sono il mistero del dolore e la gioia dell’esistenza, il senso del tempo e della storia, letti attraverso gli occhi di un uomo comune schiacciato dal destino e dalla modernità.
Ma la testimonianza del suo passaggio sulla terra è solo una lente attraverso cui leggere un Paese che cambia, si muove verso il progresso, con lo sbuffo del vapore di una locomotiva, poi con la sostituzione delle autovetture ai calessi, quindi con la conquista del cielo e dello spazio con mezzi di comunicazione che la fantasia più sfrenata non avrebbe saputo immaginare.
Robert è fin dall’inizio agente inconsapevole di questo cambiamento, abbattendo e lavorando alberi centenari per le necessità di un’industria che ha compreso l’importanza di collegare il Grande Paese, avvicinando le conquiste della Frontiera.
Ma quando la foresta in cui Robert è cresciuto si ribella a quel continuo laborioso disboscamento, prendendosi un’atroce vendetta, il protagonista sembra finalmente comprendere il suo ruolo e le sue colpe, seppure troppo tardi per evitare una tragedia che non lo abbandonerà mai.
Train Dreams è un western pastorale sul tempo che passa, sulla fine dei vecchi sogni e sull’insondabilità dell’esperienza umana, transitoria e mutevole al cospetto della maestosità eterna della vita sulla terra. Il film si muove significativamente sui binari di una ferrovia, il primo segno di modernità capace di rompere il legame ancestrale tra uomo e natura, archiviando l’epopea del Vecchio West.
Non c’è magniloquenza nè epica nel racconto singolare di Bentley, quando piuttosto il tentativo di raccontare la storia di un uomo comune, uno di quelli sulle cui spalle si è forgiata inconsapevolmente l’epopea americana.
Il film è costruito attraverso una successione di frammenti, di emozioni, di episodi, di frasi rubate alla memoria, collegati da un narratore onnisciente che ci accompagna e colma i vuoti delle lunghe ellissi attraverso cui leggere l’esperienza di Robert. Persino la violenza avviene in campo lungo, imprevedibile e repentina, parte di un mondo che nella sopraffazione e nelle armi ha trovato parte della sua identità.
Train Dreams è un’elegia malinconica sull’amore e sull’irriducibilità della perdita, in cui l’unica redenzione possibile per il protagonista – l’unico modo per ristabilire un equilibrio – è in un lento riappropriarsi del suo rapporto con la natura, fino ad osservarla con uno sguardo inedito, dall’alto, nell’ultima struggente immagine che chiude il film.
Bentley riesce poeticamente a tenere assieme l’intimità del dramma personale e l’idea di un Paese in continuo mutamento, trasformando il grande paesaggio dell’America rurale in un personaggio a sè: la sua è una riflessione sul tempo perduto e ritrovato, sull’impronta decisiva dei cambiamenti tecnologici, culturali ed economici nella vita delle persone.
Nell’infinita malinconia che abita lo sguardo del suo protagonista Train Dreams è infine una parabola sull’invincibilità della solitudine nell’esperienza umana. Una solitudine necessaria: “Il mondo ha bisogno dell’eremita nei boschi come del predicatore sul pulpito”.
La regia utilizza una grammatica visiva che richiama esplicitamente il lavoro di Terrence Malick (e Chivo Lubezki), senza cercare tuttavia alcun ricalco od omaggio: i contre-plongé dialogano con gli zoom al contrario, i movimenti fluidi della steadycam con i punti di vista inconsueti dal basso o dall’alto, i campi lunghi e l’uso del grandangolo con i campi/controcampi più classici, ma con i personaggi spesso confinati al margine dell’inquadratura.
La fotografia di Adolpho Veloso – che già aveva curato le luci de L’ultima corsa, il primo film di Bentley – è qui semplicemente sublime, nella sua capacità di cogliere la natura incontaminata di un paesaggio rurale fatto di riflessi e di luce – cristallina e limpida negli esterni, calda e ombrosa nei rari interni illuminati dalle lampade a petrolio.
Joel Edgerton avvolge di tristezza il suo personaggio, ma resta quasi sempre un passo dietro a Robert, evitando ogni eccesso emotivo e restituendoci intatto il mistero del lutto e della perdita. Così come nei suoi ruoli migliori – Loving, Master Gardener – lavora in sottrazione, senza cercare empatia con lo spettatore. Il suo ruolo ha pochissime parole eppure comunica una grande profondità emotiva. Forse nelle scene oniriche si avverte un po’ di maniera, ma più nella scrittura che nell’interpretazione.
Nella consapevolezza di aver smarrito l’amore e la bellezza come l’innocenza di un mondo perduto, Bentley ci propone un’originale meditazione sull’America: nel racconto di una vita ordinaria, apparentemente insignificante ci regala invece profondità inaspettate.
Come gli stivali degli operai, inchiodati agli alberi all’inizio del film: sembra una scena di passaggio, ma non si dimentica più.
Non aveva mai comprato un’arma da fuoco né parlato al telefono.
Non aveva idea di chi fossero i suoi genitori e non lasciò nessun erede.
Ma quel giorno di primavera, mentre perdeva ogni senso dell’orientamento,
si sentì finalmente collegato a tutto.

