Mulholland Drive

Mulholland Drive ****

E’ notte a Los Angeles. Una limousine procede silenziosa sulle colline: l’autista e un altro uomo seduti davanti, una giovane donna in abito da sera sul retro. L’auto si ferma sulla Mulholland: uno dei due uomini estrae una pistola e la punta verso la donna. Un banale incidente d’auto evita l’omicidio. L’unica superstite è proprio la vittima designata che, ancora sanguinante, scende verso Sunset Bvd e si rifugia nel giardino di un piccolo complesso.

La mattina dopo si intrufola nell’appartamento di un’anziana donna che sta per lasciare la città, per cercare finalmente riposo.

Nel frattempo la giovane Betty Elms, un’aspirante attrice di provincia, arriva nella città degli angeli per cercare di sfondare nel mondo del cinema, ospitata a casa della zia, che lavora a Hollywood da tanti anni e che è appena partita per un nuovo film da girare lontano.

Betty e la donna misteriosa – che dice di chiamarsi Rita, come la protagonista di Gilda, ma non ricorda più nulla del suo passato dopo l’incidente – finiscono per condividere il grande appartamento.

Rita ha con sé solo una borsa con 125.000 dollari in contanti e una chiave blu.

Nel frattempo, altrove in città, il regista Adam Kesher sta scegliendo la protagonista del suo nuovo film ambientato negli anni ’50. Pesantemente minacciato dai suoi finanziatori, dovrà scegliere Camilla Rhodes, una loro protetta.

Mentre Betty affronta il suo primo provino recitando un’orribile scena d’amore con un partner molto più anziano di lei e poi finisce sul set di Kesher, proprio durante il casting del suo nuovo film, Rita improvvisamente ricorda un nome, Diane Selwyn, che potrebbe essere la chiave di tutto.

Le due donne la cercano sull’elenco telefonico, vanno a casa sua, ma quello che trovano è spaventoso.

Dopo aver fatto l’amore, nel cuore della notte Rita chiede a Betty di accompagnarla al club Silencio, dove tutti si esibiscono in playback: la cantante Rebekah del Rio sviene cantando Crying di Roy Orbison.

Subito dopo, nella borsa di Betty, appare una scatola blu con un’apertura che sembra corrispondere alla chiave ritrovata da Rita.

Quando le donne ritornano a casa e provano ad aprire la scatola blu con la chiave, la realtà attorno a loro cambia radicalmente.

Fermatevi qui se non volete spoiler sull’ultimo atto del film. La recensione riprende due paragrafi più in basso.

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Rita non è altri che l’attrice Camilla Rhodes, scoperta dal regista Kesher, che ora ha una relazione con lei. Betty è davvero una giovane attrice arrivata a Hollywood per recitare, ma i suoi sogni si sono trasformati in un incubo, sul set e nella vita privata, quando la sua amante Camilla l’abbandona e la sua carriera è costellata di piccoli ruoli insignificanti: il suo nome è Diane Selwyn.

Delusa e abbandonata, Diane ingaggia un killer per vendicarsi di Camilla. Quando ritrova nel suo appartamento una chiave blu – segno che il “contratto” è stato portato a termine – sopraffatta dal dolore, decide di farla finita.

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Rivedere Mulholland Drive a quasi venticinque anni dalla sua uscita in sala è un’esperienza ancora profondamente disturbante.

Il film ritorna nei cinema grazie a Lucky Red che, con la rassegna “The Big Dreamer”, ha voluto rendere omaggio al regista di The Elephant Man, riportando in sala tutti i suoi lavori nel corso del 2025. Il restauro in 4K è stato commissionato nel 2021 da Criterion alla Cineteca di Bologna – L’immagine ritrovata.

Quando Mulholland Drive partecipa in concorso al Festival di Cannes nel maggio 2001, David Lynch è reduce da un decennio mirabile. Cuore Selvaggio ha vinto la Palma d’Oro nel 1990 grazie alla giuria di Bernardo Bertolucci, parallelamente l‘enorme successo televisivo legato ai misteri di Laura Palmer e dell’Agente Cooper l’ha trasformato in un fenomeno pop, facendo dimenticare presto il flop di Dune. Il regista ha da poco girato il suo film più semplice e diretto, Una storia vera, che appare in qualche modo come una svolta dopo che il noir Strade perdute sembrava aver segnato il punto di non ritorno negli universi onirici del regista di Missoula.

In realtà Mulholland Drive ci riconsegna intatte le sue ossessioni più oscure, la densità profonda dei suoi incubi, questa volta lontani dalla provincia più falsamente rassicurante di Velluto blu o Twin Peaks, immersi nello spazio per eccellenza del sogno cinematografico americano: Hollywood.

Lynch ha immaginato il suo nuovo lavoro come il pilota di una nuova serie tv commissionatagli dalla ABC, ma i dirigenti rifiutano categoricamente il primo montaggio: a salvare il progetto sono i francesi di Canal+, convinti che si possa trasformare il girato in un lungometraggio.

Il film debutta sulla Croisette due anni dopo le prime riprese, dove vince il premio per la migliore regia, ex aequo con L’uomo che non c’era dei fratelli Coen.

Qualche mese dopo Lynch ottiene la sua terza e ultima candidatura agli Oscar, ma si tratta dell’unico riconoscimento dell’Academy per un film in gran parte rifiutato dal pubblico eppure capace di diventare immediatamente di culto, come ancora era possibile in quella lontana stagione.

Proprio sul crinale tra i due secoli, convinti ancora della Fine della Storia e dell’impossibilità di continuare a raccontare storie semplici, come quella che Lynch ci aveva appena regalato, Mulholland Drive sembrava allora esattamente come il cubo blu che compare nella borsa di Betty al Club Silencio: lucido, inafferrabile, misterioso, enigmatico, con un’apertura che ci consente di penetrare in un’altra realtà e di decidere a quale delle due credere davvero.

All’apice del postmoderno cinematografico, animati dall’idea che non si potesse più fare cinema se non giocando con gli strumenti narrativi, decostruendoli e ricostruendoli come nei romanzi del Novecento, ci siamo arrovellati nel decifrare i pezzi mancanti e le derive di senso di un intreccio che appare oggi paradossalmente cristallino, ma assai meno interessante della fabula che Lynch ci vuole raccontare.

E la fabula è quella di un mondo corrotto, vendicativo, attraversato da una violenza psicologica e fisica insostenibile e malsana, che disgrega l’innocenza di Betty/Diane, ne frustra il talento, piegandone i desideri personali e professionali.

Hollywood diventa così solo un nome che campeggia sulla collina di una città fantasma, su cui limousine nere si inerpicano, cancellando sogni e speranze: i registi sono pusillanimi interessati e senza dignità, i produttori assomigliano in tutto e per tutto a boss mafiosi volgari e terrificanti, gli attori sono ridotti a strumenti di un potere viscido e molesto, ancora non intaccato dagli scandali, se non quelli lontani raccontati da Kenneth Anger.

L’unico film che si avvicina a quello di Lynch è forse Viale del tramonto di Wilder, non a caso citato da un cartello stradale di Sunset Bvd che compare subito dopo quello di Mulholland Dr., quasi a segnare una sorta di connessione ideale.

Stephen Holden del NYT scriveva già nel 2001 che “Mulholland Drive ha poco a che fare con la vita amorosa o l’ambizione professionale di un singolo personaggio. Il film è una riflessione sempre più profonda sul fascino di Hollywood e sui molteplici giochi di ruolo e auto-invenzione che l’esperienza cinematografica promette”. 

Evidentemente il film gioca con le identità dei suoi personaggi, quelle reali, quelle interpretate sulla scena e quelle ancora sognate e idealizzate. La stessa Naomi Watts racconta: “pensavo che Diane fosse il vero personaggio e che Betty fosse la persona che voleva essere e che aveva sognato di essere. Rita è la damigella in pericolo che ha assolutamente bisogno di Betty, e Betty la controlla come se fosse una bambola. Rita è la fantasia di Betty di chi vuole che Camilla sia.” [2]

Tuttavia non conta davvero chi siano Betty e Rita, due nomi che potrebbero essere diversi, due volti che potrebbero sovrapporsi e scambiarsi. Quello che conta è quello che rappresentano, maschere che nascondono il medesimo inganno.

Interessante invece come sia il ritorno alla dimensione eterosessuale di Camilla, sancita dall’annunciato matrimonio di comodo col regista, a scatenare prima le fantasie di sostituzione di Diane e quindi il suo desiderio di vendetta.

Restano sotto traccia ma significativi i riferimenti al celebre caso di Elisabeth Short, La dalia nera, a cui un’altra grande voce della Los Angeles più nera aveva dedicato uno dei suoi capolavori, pochi anni prima.

Il film diventa un trampolino di lancio per Naomi Watts, allora giovane e sconosciuta attrice australiana, mentre la co-protagonista, Laura Harring, sembra vivere l’incubo di Diane Selwyn, in un curioso scambio di ruoli. Per lei ci saranno solo piccole parti e tanta televisione: il suo nome resta indissolubilmente legato a questo unico capolavoro.

Per Anne Miller, attrice celebre negli anni dello studio system, è invece l’ultimo ruolo di una lontana carriera.

La fotografia di Peter Deming, in pellicola, ci restituisce – forse per l’ultima volta prima del digitale – i colori vividi della notte di Los Angeles, in modo non dissimile da quanto accadeva in Heat di Michael Mann.

La colonna sonora di Angelo Badalamenti, anche attore nel ruolo del più minaccioso dei fratelli Castigliane, mescola romanticismo classico e derive horror, fondendosi con un mixing sonoro sensazionale, che contribuisce in modo decisivo alla dimensione onirica del film.

Mary Sweeney si occupa come al solito del montaggio complicatissimo, ellittico, reso ancora più difficile dai due diversi committenti per cui il film è stato ipotizzato.

Dopo Mulholland Drive, Lynch dirigerà un solo altro film per il cinema, INLAND EMPIRE, affidando ai diciotto episodi di Twin Peaks: The Return il suo testamento artistico nel 2017.

Nel frattempo, questa piccola scheggia nata su commissione e con altri presupposti ha continuato a lavorare sull’inconscio collettivo dei suoi spettatori, nel ricordo di chi l’ha visto allora e di chi continua a scoprirlo, anche in sala, affascinati dal suo mistero e dai suoi enigmi, dal suo romanticismo e dalle sue apparizioni, da quel sentimento disperato e perturbante con cui si congeda.

Nessuno ha messo in scena l’illusione del cinema in modo così crudele e desolante: un incubo che corrompe ogni cosa, che macchia in modo indelebile come la vernice rosa sugli abiti di Kesher e che si chiude significativamente con la parola “Silencio“.

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[1] Stephen Holden, Film Festival Review: Hollywood, a Funhouse of Fantasy, su The New York Times, 6 ottobre 2001

[2] Gareth Pearce, Why Naomi is a girl’s best friend, in The Sunday Times, 6 gennaio 2002

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