A House of Dynamite

A House of Dynamite ***

“Alla fine della Guerra Fredda le potenze mondiali concordarono sulla descalation nucleare.
Oggi quell’era è terminata”

Il nuovo film di Kathryn Bigelow, a distanza di otto anni da Detroit e a tredici da Zero Dark Thirty, è un nuovo assalto adrenalinico alle strutture del potere, che in un count-down di diciannove minuti sembra prefigurare, da diversi punti d’osservazione tutti interni alla gerarchia del governo degli Stati Uniti, uno scenario apocalittico da fine dei giochi.

Si ipotizza infatti che un missile nucleare di provenienza non identificata si diriga sugli USA con un tempo d’impatto di pochi minuti e un obiettivo che sarà più tardi identificato nell’area metropolitana di Chicago.

I primi ad accorgersi del missile sono i militari del 49mo battaglione di stanza in Alaska, che lanciano immediatamente le procedure per abbattere la minaccia con un device chiamato EKD.

Nel frattempo Olivia Walker nella situation room cerca di aggiornare e coordinare le decisioni del Presidente e del Segretario alla Difesa Baker, assistiti tra gli altri dal generale Brady, che spinge per una risposta immediata prim’ancora che il missile colpisca l’Illinois, e dal giovane vicedirettore della Sicurezza Nazionale, Jake Baerington, che è in contatto con la Russia che nega responsabilità e chiede di evitare ritorsioni affrettate.

Nel frattempo l’agenzia per la continuità governativa si muove per recuperare tutti coloro che il protocollo ritiene necessari al mantenimento delle istituzioni e della catena di comando, dirottandoli verso l’area bunker di Raven Rock in Pennsylvania.

Bigelow ricostruisce adrenalinicamente, assieme al direttore della fotografia Barry Ackroyd e al montatore Kirk Baxter, questi dannati diciannove minuti da molte prospettive diverse, facendo ricominciare il conto alla rovescia atomico per due volte.

Se il primo punto di osservazione è sostanzialmente quello di Olivia Walker, coordinatrice della situation room, il secondo è quello del giovane deputy della NSA e il terzo appartiene al Segretario alla Difesa e al Presidente stesso, chiamato a prendere una decisione che il giovane Bearington riduce a due opportunità: resa o suicidio.

Mentre il tempo scorre inesorabile, facendo diminuire drammaticamente le opportunità di evitare una catastrofe nucleare, i personaggi sono costretti a confrontarsi con l’inevitabile e con responsabilità insostenibili per qualsiasi uomo.

Il film scritto da Noah Oppenheim (Jackie) è efficacissimo nel dipingere uno scenario in cui il tempo scandisce le opportunità e mostra il precipitare degli eventi verso l’apocalisse.

Tuttavia dalla doppia ripetizione di quei diciannove minuti non otteniamo altre risposte, nè nuove domande. L’impianto narrativo, le implicazioni ideologiche e morali, la dimensione geopolitica dell’intreccio sono già evidenti. La scelta di ripetere ancora e ancora lo stesso percorso da diversi punti d’osservazione non aggiunge molto alla storia, soprattutto perché il finale resta monco, più che aperto, con una chiusura frettolosa che lascia insoddisfatti.

Bigelow utilizza il linguaggio del thriller, del cinema d’azione, costruendo un crescendo continuo e tensivo, che non si scioglie mai e che semplicemente si interrompe ex abrupto. Forse l’idea è quella che il titolo stesso del film ci suggerisce: abbiamo costruito una pericolosissima “casa” piena di dinamite: è il nostro pianeta, in cui Stati armati fino ai denti hanno arsenali nucleari sempre più pericolosi, mentre il principio della deterrenza che ha sempre disinnescato le crisi nel Novecento – ai tempi della Guerra Fredda – non è detto che funzioni ancora nel mondo di oggi.

Oppenheim e Bigelow vogliono forse dirci che l’enorme e ridondante apparato burocratico-militare che dovrebbe scongiurare l’escalation nucleare è assai più vulnerabile di quanto crediamo, che le contromisure hanno un’efficacia solo ipotetica e che quando si passa dalle esercitazioni alle minacce concrete, la tecnologia, i dossier, gli esperti, gli strumenti di ultima difesa sono per lo più impotenti. E soprattutto i due autori sembrano dirci che una volta innescata la miccia atomica, quello che segue è del tutto indifferente: una risposta preventiva, un attacco successivo, una nuova risposta.

Il vortice nucleare ha un’unica possibile conseguenza autodistruttiva: non è un caso allora che la chiusura sia ambientata anticlimaticamente all’ingresso dell’area bunker americana dove gli uomini e le donne designati si avviano come topi che si nascondono nella tana della civiltà.

L’impotenza è il sentimento prevalente: più si sale nella catena di comando, più ci si accorge che le scelte sono alternative ugualmente distruttive.

Tuttavia, dal punto di vista cinematografico e narrativo, la scelta di Oppenheim e Bigelow non è particolarmente efficace ed è anche l’unico momento in cui il film sembra frettoloso e maldestro, invece che analitico e informato, lasciando una strana sensazione d’incompiuto. Ma forse quella conclusione brusca, quella dissolvenza a nero è solo la manifestazione più evidente del cupio dissolvi che ci attende.

Bigelow continua a fare grande cinema politico con gli strumenti di genere che conosce meglio, aggiornando l’angoscia atomica – che già Oppenheimer aveva rievocato – alla diffidenza che oggi abbiamo nelle leadership internazionali: una diffidenza che ha ormai contagiato pienamente l’Occidente, anche se il film su questo punto rimane del tutto reticente, mostrando un presidente nero, riflessivo, empatico e pieno di dubbi, lontanissimo da quello che attualmente siede alla Casa Bianca.

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