À pied d’œuvre **1/2
Il settimo film di Valérie Donzelli scritto assieme a Gilles Marchand, a partire dal romanzo omonimo di Franck Courtès, è un piccolo ritratto minimalista, ostinato e controcorrente, dedicato a chi, nella corsa della vita, sembra deciso a decelerare.
Il protagonista è Paul, una volta fotografo di discreto successo, che ha messo su uno scaffale e poi venduto le sue macchine, per dedicarsi alla scrittura. Dopo tre libri e una certa attenzione critica, le vendite sono davvero minime e la sua editrice rifiuta un manoscritto autobiografico intitolato Storia di una fine.
La moglie si è separata da lui e assieme ai figli adolescenti si è trasferita a Montreal.
Paul, costretto a ridurre le sue spese, si trasferisce in un sottoscala e accetta di vivere appieno le contraddizioni e la durezza della gig economy, a patto che gli lasci il tempo sufficiente per continuare a scrivere: si adatta così a fare lavoretti pagati pochi euro in desolanti aste online al ribasso o a fare il tassista con la macchina del padre.
Sgombra cantine, sposta mobili, pulisce giardini e fioriere. Nel frattempo la sua vita sembra precipitare, tra i risentimenti familiari e i rifiuti editoriali.
Quando il padre, al colmo della disperazione, danneggia il suo computer, rendendo irrecuperabile il suo manoscritto, Paul trova nei quaderni di appunti della sua nuova vita da sottoproletario tuttofare lo spunto per ricominciare a scrivere di sè e di una generazione che ha barattato il simulacro della libertà con una precarietà che un qualsiasi evento può trasformare in miseria.
Il film di Donzelli è piccolo, personale, sentito, costruito addosso al protagonista Bastien Bouillon, pedinato continuamente con obiettivi che sembrano opprimerlo dentro le case degli altri, nell’abitacolo dell’auto che guida, nello squallido scantinato che abita.
Le sue sono memorie del sottosuolo, nel senso più letterale del termine: il piccolo successo ritrovato è il segno di un racconto che troppi condividono e in cui si riconoscono.
L’equilibrio della sua vita resta precario, l’ambizione di non abbandonare le proprie passioni è encomiabile, tuttavia non si comprende per quale motivo la fotografia non avrebbe potuto coesistere con la scrittura, molto più affine ai lavori da handyman, manovale, giardiniere o tassista che Paul decide di fare per sbarcare il lunario.
À pied d’œuvre sceglie il realismo mimetico, l’adesione senza interrogativi alla prospettiva del protagonista, non si pone domande, ma insegue quelle che il racconto suscita, cerca di illuminare le assurdità di un economia “a chiamata“, in cui la dignità del lavoro sembra una conquista ormai definitivamente perduta, anche per responsabilità di chi ne ha accettato fino in fondo la legittimità.
Basterà la telefonata di un figlio a giustificare i sacrifici autoimposti in nome di una vocazione che gli altri faticano a riconoscere?
Accorato.

[…] Migliore sceneggiatura: Valérie Donzelli, Gilles Marchand per À pied d’œuvre […]