Trentacinquenne di Feltre, Francesco Sossai, debutta a Un certain regard a Cannes con il suo secondo film, un road movie ambientato tutto nella provincia di Venezia, “nato da una sbornia colossale” e da un puntiglioso lavoro di scouting sul territorio.
Dopo un prologo di ordinario paternalismo imprenditoriale, con il grande capo che arriva in elicottero a premiare con un Rolex un operaio che ha lavorato nella sua ditta sin dal giorno della sua apertura, il film introduce i due straordinari protagonisti di quello che sarà un road movie picaresco, disincantato, divertentissimo e ad alto tasso di verità alcolica.
Carlobianchi e Dori dopo aver consumato un numero imprecisato di birre in autogrill, nell’ennesima serata assieme, decidono di bere l’ultimo bicchiere altrove. Si spostano a bordo di una Jaguar nera, in un locale di motociclisti che sembra uscito dal profondo sud americano e poi si imbattono nella festa di laurea della neoarchitetto Giuliamaria.
L’ultimo bicchiere non è ancora arrivato, ma i due prendono a cuore le sorti di Giulio, un altro studente, segretamente innamorato della festeggiata, un timido napoletano che vorrebbe solo tornare a casa presto per ripresentarsi in facoltà il giorno dopo.
Inutile dire che assieme al gatto e la volpe, Giulio in università non ci arriverà mai.
Di locale in locale, di paese in paese, di racconto in racconto, il duo diventa presto un trio.
Su di loro aleggia la leggenda di Giulio, il più caro amico di Carlobianchi e Doriano, costretto a fuggire in Argentina per sottrarsi ad un’accusa di associazione a delinquere per un corposo giro di occhiali sottratti alle fabbriche locali e rivenduti clandestinamente.
Genio è di ritorno in Italia: le vecchie accuse sono prescritte, anche per recuperare un mitico tesoretto seppellito lontano da occhi indiscreti.
Nel loro infinito peregrinare i tre si imbatteranno anche nell’operaio dell’inizio e troveranno il tempo di visitare la Tomba Brion a San Vito di Altivole.
Il film di Sossai è semplicemente incantevole: una commedia purissima, che sembra recuperare lo spirito del cinema di Mazzacurati, immerso com’è negli stessi paesaggi, negli stessi accenti, nelle stesse notti.
Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla sono una scoperta fulminante, un duo inarrestabile, che si compensa e si comprende e che trascina anche il più rigido Filippo Scotti (E’ stata la mano di Dio) in un detour alcolico ed esistenziale, tra piccole truffe, rifiuto dell’operosità veneta e senso della vita.
I due perdigiorno sono campioni nel dissipare, nel procrastinare, nel dimenticare: due cialtroni di genio, insopportabili per chi ce li ha accanto nella vita, ma formidabili guasconi per chi vi si imbatta nel corso di una serata.
Eppure i due non hanno nulla della malizia di tanti villain della nostra commedia. Sono gli antieroi positivi di questa storia, piccoli criminali per spirito di sopravvivenza e solidali sino in fondo con il malcapitato Giulio, che impara presto il loro codice morale.
Sossai dirige con piglio svelto la sceneggiatura scritta con Adriano Candiago, rispettando magnificamente i tempi comici dei suoi interpreti, anche grazie al montaggio di Paolo Cottignola e alla fotografia notturna e crepitante di Massimiliano Kuveiller. Originalissime le musiche di Krano, quasi sempre integrate direttamente nel tessuto del racconto.
Il regista ha le idee chiarissime: “detesto la finzione e desidero sempre di più creare un tipo di cinema che racconti la vita nelle sue miserie, nelle sue banalità e nei suoi rari momenti di illuminazione. E voglio che le riprese che realizzo sembrino parte di un ecosistema o di un paesaggio”
Un piccolo gioiello italiano a Cannes, fuori dal tempo e dalle mode, tutto al maschile, ma senza paternalismi. Figlio di quella provincia italiana più autentica, che il cinema sembrava aver dimenticato o appaltato alle film commission.


