Il secondo film della regista giapponese Hayakawa Chie entra direttamente nel concorso ufficiale di Cannes 78 con una scelta che lo premia molto oltre i suoi meriti.
Renoir nasce da una suggestione autobiografica e ci riporta ai sobborghi di Tokyo nella seconda metà degli anni ’80.
Il titolo fa evidente riferimento a Il ritratto di Irène Cahen d’Anvers, “la bambina con il nastro blu”, il celebre quadro di Pierre-Auguste Renoir, che ad un certo punto appare nel film.
Anche Hayakawa racconta di una bambina, Fuki: dieci anni e un padre malato terminale, che lotta contro un tumore senza speranza, ormai allettato in ospedale. La madre, divisa tra le cure al marito e il lavoro, le lascia una libertà forse troppo ampia, che la bambina riempie con un’immaginazione prodigiosa, che spessa tracima nei suoi temi scolastici e con surreale pratiche amatoriali di parapsicologia.
Il tono è lieve, il racconto si muove a lungo in punta di piedi e ad altezza della notevolissima interprete Yui Suzuki, scelta dalla regista dopo un lunghissimo casting e con grande intuito, perché si dimostra capace di sostenere l’intero film sulle sue piccole spalle, con uno sguardo sempre evocativo e curioso del mondo.
Il racconto è tuttavia sfrangiato, episodico, a volte poco leggibile e cerca di inseguire l’inafferrabile fantasia di Fuki, anche quando si mette nei guai e finisce, forse per ingenua curiosità, proprio a casa di un orco. Il destino l’assiste, ma nulla può di fronte alla malattia e poi alla morte del padre, che pure entra nella sua vita con un dolore muto, quasi indifferente, forse già elaborato.
E’ uno strano film Renoir, che cerca continuamente una misura che non sembra non raggiungere mai, che continua a girare in tondo, perdendo tempo, accumulando deviazioni che forse sono necessarie ad esorcizzare la piccola grande tragedia familiare di cui Fuki è testimone.
E così mentre la madre è costantemente in affanno e sovrastata da quello che le sta capitando, la piccola bambina sembra vivere in un mondo tutto suo, in cui la vita e la morte fluiscono senza soluzione di continuità.
“Quando muore qualcuno piangiamo per loro, o per il nostro dolore?” è questa la domanda che si pone uno dei personaggi e che la regista rivolge forse anche a noi.
Il racconto non ha risposte chiare, ma si accontenta di mostrare la sua protagonista con efficacia impressionista, appunto, lasciando al pubblico il gioco delle emozioni.
Fuki sembra esorcizzare la solitudine, mettendo la sordina al dolore, il proprio e quello degli altri, con una maturità che colpisce.
Il tono è sempre quello soave della commedia, anche quando la vita presenta i suoi conti, lontano forse dalla nostra cultura, che vive di dramma e di tragedia.

