Cannes 2025. Dossier 137

Dossier 137 **1/2

Il ritorno in concorso a Cannes di Dominik Moll a distanza di vent’anni da Lemming, segue il successo de La notte del 12, il suo true crime di tre anni fa, ospitato nella sezione Prèmiere e poi diventato uno dei film francesi della stagione.

Con Dossier 137 ritorna all’inverno del 2018 quando il fenomeno populista dei gilet gialli esplode in tutta la sua veemenza. Blocchi stradali, manifestazioni ripetute, scontri con la polizia, una protesta che monta in modo sempre più forte e una serie di incidenti causati evidentemente dalla tensione tra le forze dell’ordine e i manifestanti.

La protagonista di questa storia è Stéphanie: dopo quindici anni alla narcotici e la separazione dal marito che è rimasto nella stessa sezione, ha scelto di passare agli affari interni con la IGPN. E’ un lavoro d’ufficio, che le lascia più tempo da dedicare a suo figlio adolescente.

Nel dicembre 2018 sta indagando su un poliziotto che ha lanciato un sampietrino contro i manifestanti: sembra essere comprensiva mentre interroga l’agente preoccupato e forse pentito, che le confessa: “l’unica cosa che so fare è il poliziotto”.

Poco dopo Stéphanie riceve la denuncia di una madre, Joelle, che era arrivata con i suoi ragazzi dalla provincia di St.Dizier, per la manifestazione dei gilet gialli: durante la manifestazione si sono separati, ma ora il figlio Guillaume è stato colpito alla testa ed è in ospedale con danni probabilmente irreversibili. Con lui c’era l’amico Remi che professa la loro completa innocenza: i due sono stati presi di mira da una brigata di poliziotti, che li hanno colpiti a sangue freddo, mentre stavano per scappare.

Stéphanie comprende la gravità delle accuse, imbasticisce l’indagine preliminare con i suoi colleghi, cerca conferme e identifica e poi ascolta i cinque poliziotti della BRI, le brigate anti-crimine, che si difendono creando un muro di gomma impenetrabile.

Ma grazie alla sua testardaggine riesce a recuperare un filmato, girato da una testimone, dalla finestra di un albergo vicino.

Le immagini inchiodano i colpevoli alle loro responsabilità brutali. Ma la giustizia segue percorsi diversi, spesso illogici e sovente terribilmente amari.

Il film di Moll è un altro rigorosissimo procedurale, che ruota quasi interamente attorno all’indagine della protagonista e al modo in cui parenti, familiari, colleghi e vittime vengono travolte dagli eventi.

Quando Stéphanie richiede e ottiene il fermo dei due che hanno sparato, finisce nell’occhio del ciclone dei colleghi, del sindacato e dell’opinione pubblica. Quando la sua indagine si arena, di fronte ad una perizia inconcludente, è la famiglia di Guillaume a rivolgere parole durissime e disperate.

Léa Drucker ci regala un’interpretazione di grande sottigliezza, tutta in sottrazione, capace di tenersi dentro il dolore, l’umiliazione, il senso di giustizia tradito, il rispetto dei colleghi e della verità, senza mai esplodere. Il suo è un personaggio dignitoso, che cerca di fare con scrupolo il suo lavoro, senza agende e senza crociate.

Il racconto di Moll, ispirato ad una storia vera, cerca di restare obiettivo, aderente alle procedure dell’indagine, con una essenzialità e un rigore che potrebbero essere scambiati per assenza di stile e di sguardo. E invece la sua è la scelta più autentica, una scelta che mostra l’impotenza di una crisi sistemica, di una realtà giudiziale incapace di fare luce, impantanata nelle ombre di una burocrazia che protegge i criminali, da qualunque lato della barricata si pongano.

E a cui non sono estranei i temi delle differenze razziali e sociali, che pure emergono carsicamente ad un certo punto. Non è del tutto neutro che i cinque indagati della BRI siano tutti uomini, mentre la squadra degli affari interni sia invece prevalentemente femminile.

Il figlio di Stéphanie ad un certo punto chiede alla madre perché i poliziotti siano così odiati. La risposta è complicata, e non basta dire che il monopolio dell’uso della forza non consente di farsi troppi amici. C’è qualcosa che va oltre: come dimostra l’ostilità che monta nei confronti di Stéphanie e dei suoi colleghi della IGPN, nonostante sia evidente l’attenzione scrupolosa, l’equilibrio, l’assenza di pregiudizi di chi si trova a vivere continuamente il rischio di empatizzare con le vittime degli abusi, pur rimanendo poliziotti e avendo spesso condiviso le stesse difficoltà dei colleghi.

Formidabile in proposito il confronto in prefinale tra Stéphanie e la sua supervisore, che le rinfaccia di provenire dalla stessa provincia delle vittime e di avere quindi un possibile pregiudizio, capace di inquinare le indagini: il richiamo pur legittimo ad una deontologia impeccabile e ad una vera terzietà si scontra con la realtà delle cose e suona inutilmente, stupidamente formale.

E’ una scena che sembra provenire dal cinema di Gianni Amelio, da Il ladro di bambini, per come ribalta la dimensione morale del racconto, rinnovando continuamente i dubbi che la protagonista ha tenuto a bada nel corso di tutta l’indagine.

Il film di Moll si chiude con la più amara delle conclusioni e con la stupidità stordente dei nostri social. “Quando il lavaggio del cervello sarà completo e la nostra democrazia defunta, forse ci pentiremo di aver passato il nostro tempo a guardare filmati stupidi“: il monito cade nel vuoto, la delusione è troppo grande, la professionalità svilita si rifugia nei filmati dei gattini.

Meglio dimenticare.

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