Quando nel giugno del 1994 la Disney distribuisce in sala il suo trentaduesimo lungometraggio d’animazione, Il Re Leone, diretto dalla coppia Roger Allers e Rob Minkoff, tratto da una sceneggiatura di Linda Wolverton, Jonathan Roberts e Irene Mecchi, si trova nel pieno del suo imprevedibile rinascimento artistico, dopo i clamorosi successi di La sirenetta, La bella e la bestia e Aladdin, capaci di rinverdire i fasti della società, dopo i capolavori firmati dal leggendario Wolfgang Reitherman negli anni ’60 e ’70.
Grazie anche alle musiche di Hans Zimmer e alle canzoni di Elton John e Tim Rice, il film è un altro trionfo, capace di generare negli anni successivi un celeberrimo musical di Broadway, due sequel usciti straight-to-video, due serie d’animazione e poi nel 2019 un remake live action, curato dal pioniere Jon Favreau (Il libro della giungla, Iron Man, The Mandalorian), in grado di incassare 1,6 miliardi di dollari in tutto il mondo.
Inevitabile arriva ora il prequel, affidato ancora alla penna di Jeff Nathanson, incaricato di scrivere una nuova storia a partire dai personaggi creati ormai trenta anni fa.
Alla regia viene chiamato addirittura Barry Jenkins, che dopo l’Oscar per Moonlight e Se la strada potesse parlare, si era occupato nell’ultimo lustro solo della serie tratta da La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead.
Simba è l’amato Re delle Terre del Branco. Quando si allontana per qualche giorno con Nala, la piccola figlia Kiara è affidata al saggio mandrillo Rafiki e alla coppia Timon e Pumbaa, il suricato e il facocero, amici di sempre nel Cerchio della vita.
Al riparo tra le rocce a causa di un violento temporale, Rafiki racconta a Kiara la storia del nonno Mufasa, il primo Re Leone capace di unificare gli animali di Milele.
Con un lungo flashback interrotto solo un paio di volte, ritorniamo al tempo in cui il piccolo Mufasa era un cucciolo come Kiara: a causa di una piena improvvisa viene trasportato lontano dai suoi genitori in una terra sconosciuta, in cui fa amicizia con Taka, l’erede al trono di un piccolo branco guidato dal Re Obasi e dalla Regina Eshe.
Taka e Mufasa diventano inseparabili, ma il Re, che teme per la sua dinastia, costringe il piccolo estraneo a stare con le leonesse, affinando però in questo modo le sue qualità di cacciatore.
Quando i leoni bianchi guidati dal figlio di Re Kiros attaccano Eshe, è Mufasa a proteggerla, mentre Taka fugge impaurito.
Kiros pretende la sua vendetta per la morte del figlio e Obasi decide così di mandare lontano Taka e Mufasa, per cercare di salvarli.
I due fuggono lontano e si imbattono in Sarabi, una leonessa che ha perduto il suo branco e nel suo amico Zazu, un buceretto dal becco rosso, e poi nel giovane Rafiki, emarginato dalla sua tribù di scimmie e babbuini.
I cinque di mettono così in viaggio verso Milele, mentre Kiros e i suoi leoni bianchi sono sulle loro tracce.
La storia d’origini ideata da Nathanson è per una volta un approfondimento interessante e innovativo del tradimento attorno a cui ruotano gli eventi raccontati nel successivo Il Re Leone.
E’ tuttavia molto lontano dall’epica dinastica dell’originale, con il suo familismo rigidamente conservatore e determinista, il potere trasmesso dalla linea di sangue, il fatalismo del tormentone Hakuna Matata, l’esaltazione del coraggio e delle responsabilità.
Oggi i valori della Disney sono altri e lo script di Mufasa lo testimonia precisamente, con eredi riluttanti e inadeguati, leoni perduti, villain emarginati e un senso di comunità del tutto nuovo, in cui ciascuno può e deve fare la sua parte.
E’ un mondo inclusivo e costruito sulle relazioni, non sul diritto divino e anche il rapporto con il potere è diverso. In due ore di film nessun leone sembra mangiare alcunché, alla faccia dell’istinto predatorio e della stessa sopravvivenza dei personaggi.
Gli stessi riferimenti all’Amleto sono del tutto rimossi.
Il viaggio di Mufasa e Taka verso il paradiso sognato di Milele e il modo in cui il primo finisce per diventare il sovrano di una terra pacificata e solidale è scritto in modo intelligente, senza dimenticare la dimensione avventurosa, il lato romantico, l’alleggerimento comico: insomma gli elementi ci sono tutti e il cocktail avrebbe dovuto essere solo bilanciato dalle mani di Jenkins.
Eppure qualcosa non funziona sino in fondo. Il regista non riesce mai davvero a trovare il ritmo giusto tra azione e introspezione e continua a muovere la macchina da presa – virtuale – in un modo che vorrebbe essere libero e audace, ma finisce solo per essere confusionario e incompetente.
Nonostante tutta la seconda parte del film sia un formidabile inseguimento negli spazi vasti della Tanzania, tra la terra della savana, le cascate d’acqua e poi le vette innevate, la suspense non cresce mai e le stesse relazioni tra i personaggi sembrano costruite meccanicamente.
Anche le canzoni affidate al celebratissimo Lin Manuel Miranda interrompono spesso senza motivo alcuno il racconto di Jenkins, il quale pare sopportarne l’inserimento di malavoglia.
Il film finisce spesso per perdere il suo ritmo proprio in questi sette momenti musicali, che raramente riescono ad aggiungere nuove espressioni al coinvolgimento emotivo dei personaggi.
Jenkins sembra più interessato a far emergere le sue ossessioni sull’identità e sulla centralità di chi appare ai margini. E a curare la dimensione politica del film, mettendo al centro della storia un viaggio perfettamente contemporaneo, con un eroe compassionevole, modesto e capace di ispirare gli altri, artefice ultimo del proprio destino.
Il quintetto dei protagonisti è eterogeneo e ben assortito, composto da chi è stato allontanato dal proprio gruppo e dalla propria famiglia, per caso o sfortuna, per scelta o per un compito assegnato. Assieme troveranno il modo di costruire un rapporto nuovo tra di loro e con gli altri.
Tra i cinque, oltre a Mufasa, è Taka il personaggio più definito, fragile e pieno di dubbi, l’unico che abbia davvero un arco narrativo e psicologico complesso.
Eppure il fotorealismo assoluto scelto da Jenkins e dagli animatori rende assai poco espressivi questi personaggi, riducendo al minimo l’interazione tra di loro. Il trionfo tecnologico rimane piuttosto freddo.
E così nonostante sia migliore del film precedente, Mufasa – come ha scritto Aidan Kelley su Collider – alla fine sembra un prequel non necessario di un remake inutile.
Ora la parola passa al pubblico, che è sembrato gradire moltissimo il film del 2019, anche in Italia, con oltre cinque milioni e mezzo di spettatori

