Wicked

 Wicked – Parte 1 **1/2

Da oltre un lustro la Universal immaginava di portare sullo schermo Wicked, il musical scritto da Winnie Holzman e Stephen Schwartz, messo in scena per la prima volta nel 2003 a San Francisco per la regia di Joe Mantello con Idina Menzel, Kristin Chenoweth e il leggendario Joel Grey, diventato rapidamente il quinto più rappresentato di sempre a Broadway.

Il libretto nasceva da un adattamento del romanzo omonimo di Gregory Maguire, in italiano Strega – Cronache dal Regno di Oz in rivolta, a sua volta ispirato dai personaggi e dal mondo creati da Il meraviglioso mago di Oz di L. Frank Baum e dalla celeberrima versione cinematografica di Victor Fleming per la Mgm.

Siamo di fronte ad una sorta di matrioska, di cui questa versione cinematografica – peraltro solo parziale – è solo l’immagine più esterna.

Dopo aver pensato a Stephen Daldry, la direzione è stata affidata al coreografo e regista Jon M. Chu, il cui cinema si è quasi sempre nutrito di voci e corpi in movimento e anche di trucchi e magie, dalla serie Step Up ai film concerto per Justin Bieber, da Jem e le Holograms e Now You See Me 2 fino allo sfortunato adattamento di In the Heights di Lin-Manuel Miranda.

La scelta della star pop Ariana Grande e della formidabile performer londinese Cynthia Erivo (WidowsHarriet) nei due ruoli principali, nonostante non li avessero mai interpretati nelle tante versioni teatrali della commedia, sembrava chiudere il cerchio di un progetto destinato al successo.

Wicked comincia là dove finiva Il mago di Oz, con la sconfitta della Malvagia Strega dell’Ovest, Elphaba, da parte della piccola Dorothy.

Il regno di Oz festeggia la liberazione dal terrore con Glinda, la Buona Strega del Sud, ma quando i mastichini le chiedono se conoscesse Elphaba, i ricordi affiorano dolorosamente alla sua memoria.

E ci riportano a molti anni prima quando Galinda – questo il suo vero nome – era stata ammessa alla prestigiosa Università Shiz con la speranza di studiare stregoneria con la celebre Madame Morrible. La biondissima e popolarissima studentessa è costretta a dividere il suo lussuoso alloggio con Elphaba che, venuta solo per accompagnare la sorella Nessarose costretta in carrozzina, aveva suscitato l’interesse di Madame Morrible per il suo grande potenziale.

Le due non potrebbero essere più diverse, per carattere, attitudine, origini e aspirazioni. Elphaba è nata con la pelle verde, veste di scuro, è studiosa, umile e riservata, almeno quando Galinda è una nuvola rosa di civetteria, superficialità e ambizione, una sorta di Barbie ante litteram. Ma le incomprensioni iniziali cedono alla solidarietà più autentica, nel momento in cui Elphaba ne ha più bisogno.

Le due diventeranno inseparabili, ma il tanto atteso incontro con Oz provocherà una frattura decisiva.

E’ evidente il tentativo di rilettura del racconto di Baum in una chiave non solo femminile, ma anche più chiaramente culturale e politica.

L’ostracismo verso Elphaba, le vessazioni che subisce senza alcun motivo, la paura e il ribrezzo che suscita solo per il buffo colore della pelle, la isolano e ne fanno un capro espiatorio perfetto, un nemico verso cui coalizzare le altre forze in gioco. Lo smascheramento di Oz è poi simile a quanto già accadeva nel prequel di Raimi con Franco: togliendo ogni aura al personaggio, Chu ne fa una sorta di tiranno illuminato, che non si fa scrupolo di manipolare i suoi sudditi devoti, emarginando e ingabbiando le voci diverse, per perpetuare l’illusione di un mondo felice solo nei suoi modellini.

Il sottotesto è piuttosto evidente e risuona più volte in modo molto esplicito, sia nella sua dimensione personale sia in quella più sociale. Come accade sempre più spesso gli americani preferiscono sottolineare il messaggio due volte con la matita blu, eliminando qualsiasi ambiguità e qualsiasi sfumatura. Tuttavia il problema di questo Wicked è tuttavia nelle sue dimensioni fuori scala: solo questa prima parte, che sarà seguita tra un anno dalla seconda, si dilunga per due ore e quaranta minuti, trovando sì un grande finale musicale e d’azione grazie al numero Defying Gravity, ma arrancando per un tempo interminabile in cui vengono semplicemente introdotti i personaggi.

I caratteri sono così chiari che alla quindicesima scossa ai capelli di Ariana Grande anche il fan più devoto della star e del musical comincia a spazientirsi. Non basta infatti il talento evidente delle due e l’imprevedibile interazione tra i due registri diversi, in un film che si affida del tutto a loro e alla musica, senza mai davvero fare una scelta.

I numeri ballati sono relativamente pochi, forse solo quello all’interno della biblioteca con Jonathan Bailey, Dancing Through Life, è davvero interessante, grazie alla libreria circolare che consente acrobazie inedite.

Negli Stati Uniti il film sembra destinato a un trionfo di pubblico inarrestabile. Dubito tuttavia che nel resto del mondo non anglosassone il film possa avere la stessa fortuna.

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