Nella primavera del 1994 il giovane e semisconosciuto Quentin Tarantino, già commesso del Video Archives di Manhattan Beach, attore senza fortuna, quindi autore di un esordio controverso e dal titolo oscuro e di un paio di sceneggiature cedute a Tony Scott e Oliver Stone, viene ammesso nel concorso principale di Cannes con Pulp Fiction, il suo secondo lungometraggio da regista.
Il film è un’epopea di due ore e mezza ambientata nella downtown di Los Angeles, aperta e chiusa da una rapina in un diner e attraversata da un pugno di personaggi memorabili: i due criminali Jules e Vincent al soldo del boss Marsellus Wallace, il pugile Butch Coolidge, costretto alla fuga dopo aver vinto un match truccato che avrebbe dovuto perdere, Mia Wallace la giovane moglie del capo, che Vincent deve far divertire, in una serata che termina con un trofeo di ballo e un’overdose di eroina e infine l’imperturbabile Mr. Wolf, un fixer per antonomasia, che si presenta alle nove di mattina con i suoi modi impeccabili, vestito in smoking da sera.
Capace di creare da zero il proprio immaginario di riferimento, Pulp Fiction saccheggia a piene mani letteratura e cinema di genere, ma anche riferimenti alti e cultura pop, a cominciare proprio dalla definizione di “pulp” che appare sullo schermo, subito dopo il logo della casa di produzione Miramax, fondata da due fratelli ebrei newyorkesi e capace di segnare a fuoco il cinema degli anni ’90.
Tarantino gira in pellicola a 50 ASA limitando al massimo la grana, nel tentativo di restituire al suo film i colori brillanti e vividi del cinema americano degli anni ’50. Il montaggio clamoroso della compianta Sally Menke fa il resto, immergendo i frammenti del film in un flusso sonoro ininterrotto che viene – questo sì – dal cinema rutilante di Martin Scorsese.
In un’annata memorabile in cui concorre tra gli altri con Kieslowski, Kiarostami, Egoyan, i fratelli Mikhalkov, Yimou e il miglior Moretti, il presidente della giuria Clint Eastwood assegna la Palma d’Oro – non senza qualche esplicita contestazione – al giovane scapestrato e alla sua banda improbabile di criminali, pupe e pugili.
Pochi mesi dopo arriveranno oltre 200 milioni di dollari d’incasso, il trionfo agli Independent Spirit Awards, l’Oscar e il Golden Globe per la sceneggiatura, firmata da Tarantino a partire dalle storie create assieme a Roger Avary, e un’aura di culto che resiste da allora.
Grazie a Pulp Fiction John Travolta vive una seconda stagione di gloria, Samuel L.Jackson dopo una lunghissima gavetta diventa a quarantacinque anni la personificazione della coolness afroamericana e Uma Thurman esce dal cono d’ombra del cinema indie.
La colonna sonora piena di classici soul, funk e r&b con Kool & the Gang, Dick Dale e Al Green, contribuisce a rendere indimenticabili molti momenti del film: ma nessuno vale il celeberrimo twist ballato da Travolta e Thurman sul palco del Jack Rabbit Slim sulle note di Chuck Berry.
La scrittura pop di Tarantino è il linguaggio di una generazione intera: i riferimenti ai fumetti, alle vecchie serie televisive, al cinema di serie B, ai film orientali e ai classici della letteratura hard boiled – così intimamente connaturata alla storia di Los Angeles – diventano patrimonio comune, diffuso e imitato sino alla nausea.
Non c’è nuovo esordio che non sia in qualche modo costretto a confrontarsi con il giovane maestro di Le iene e Pulp Fiction, immediatamente canonizzato.
La struttura narrativa esplicitamente postmoderna con cui Tarantino scrive i suoi primi lavori è un puzzle in cui le risposte arrivano prima delle domande, in cui i rapporti di causa ed effetto vengono smontati e rimontati, come accade molto più spesso nei romanzi, che non al cinema.
Tarantino è artista enciclopedico e autodidatta, non smette di dichiarare i suoi amori, dalla retorica magniloquente ed esagerata di Sergio Leone alla stilizzazione che arriva dal cinema action di Hong Kong, dal venerato formalismo Brian De Palma al Godard degli anni ’60, maestro nella riscrittura dei generi.
La capacità di creare dialoghi affilatissimi, provocatori e definitivi – rubando a Hecht e MacArthur la tecnica dell’overlapping – risulta ancor più evidente quando si rinvengono le tracce del suo stile anche negli apocrifi Una vita al massimo e Natural Born Killers, i suoi primi due script, purtroppo affidati ad altri. La struttura ad incastro è perduta dagli interventi di Scott e Stone, ma resta l’idea profonda di un cinema che sembra surfare senza paura sull’onda più alta, una lunga cavalcata sprezzante di ogni possibile inabissamento.
Il regista usa la cultura di massa per farne strumento di comunicazione privilegiata tra i suoi personaggi, come mostra plasticamente nell’incredibile macchina del tempo del Jack Rabbit, che ci riporta al kitch degli anni ’50. Gli stessi protagonisti sembra che parlino in codice e ogni tanto hanno bisogno di spiegarsi, come accede tra Jules e Vincent a proposito del “pilota” a cui ha partecipato Mia Wallace. Prese le misure del nuovo campo da gioco, i due riprendono a mettere in scena la parodia consapevole dei killer a contratto, in cui la citazione apocrifa di Ezechiele 25,17 è solo l’ultimo degli sberleffi.
In quel momento non si può amare il cinema americano degli anni ’90 senza fare i conti con Quentin Tarantino.
Trent’anni dopo, Pulp Fiction ritorna nelle sale in una bella copia digitale in 4K, che probabilmente susciterebbe l’ira del Tarantino feticista della pellicola.
La sala in cui l’ho rivisto era pienissima di ragazzi che forse lo scoprivano per intero per la prima volta, come reperto di un tempo lontano, più vicino a quello dei loro genitori.
Il film, nel corso di questi trent’anni, è stato scomposto e utilizzato per meme e frammenti che continuano a colonizzare l’immaginario collettivo, ma che sopravvivono a se stessi, slegati dal complesso impianto architettonico originale.
E forse è in questa dimensione spuria ed episodica che il film è arrivato a chi oggi affolla le sale per vederlo sul grande schermo.
Fortunatamente nel cinema non c’era una reunion di reduci nostalgici, ma un pubblico nuovo, curioso, in un certo senso “vergine” di fronte a quelle immagini.
Poche le risate complici, poche le battute ripetute a memoria, non sembrava esserci quell’eccitazione elettrica che animava le proiezioni di trent’anni fa. Mi accorgo che forse quel film che parlava perfettamente ai ventenni degli anni ’90 oggi viene visto con occhi diversi.
Il mio entusiasmo infantile di fronte ad un film che è patrimonio e linguaggio della mia formazione cinefila, non è quello di chi mi sta accanto, che ha inevitabilmente riferimenti diversi e sensibilità nuove.
Alessandro Ronchi su Gli Spietati parafrasando Wallace – un’altra icona di quegli anni – ne ha scritto come di “una cosa divertente che chissà se rifaremo mai”.
A suo avviso il film è entrato “nella categoria – trademark Stephan Zweig – del ‘mondo di ieri’. Se l’ideologia di un dato momento storico è l’acqua nella quale nuotano i film come tutti gli oggetti culturali, la falda di Pulp Fiction si è esaurita come è superato il linguaggio cinematografico con cui è scritto. Pulp Fiction ora sarebbe impossibile, eventuali epigoni sarebbero ridicoli”.
Ma se il microcosmo coloratissimo ed esagerato di Pulp Fiction e la sua struttura disarticolata ci appaiono oggi lontanissimi dalla realtà di un mondo dominato nuovamente da narrazioni forti e identitarie, da neopuritanesimi minacciosi e confusi, da conflitti che rendono cupo e incerto l’orizzonte, il film di Tarantino resta un oggetto irriducibile ad ogni classicità, ad ogni sguardo nostalgico, impossibile da replicare, ma non superato.
Certo, sarebbe meglio chiederlo ad un ventenne di oggi, ma utilizzando le parole di un altro grande scrittore di quegli anni, Pulp Fiction mi pare continui ad essere invece “l’opera struggente di un formidabile genio“, la testimonianza di un talento unico nel momento della sua clamorosa deflagrazione sulla scena culturale americana. Il film ha le stimmate di un’opera rivoluzionaria e distruttiva, la velocità logorroica dei giovani, l’esagerazione parossistica di chi vuole dire tutto e subito, per il timore di non avere più la stessa opportunità.
Già con il successivo e non meno formidabile Jackie Brown, ma più decisamente a partire da Bastardi senza gloria, il cinema di Tarantino prenderà strade differenti, fino a chiudere il cerchio con il ritorno alla sua Los Angeles nel ritratto contro-generazionale di C’era una volta a… Hollywood, il più classico e conservatore dei suoi lavori, in cui la rilettura ucronica della storia contagia nostalgicamente anche la storia del cinema.
Pulp Fiction invece ha dentro di sè l’anima di un’opera d’avanguardia, “bastarda e meticcia” come ha scritto Morsiani nel suo saggio monografico per Lindau.
Un’opera di audacia “nichilista e relativista“, che rigetta il realismo amaro del noir per una corsa sulle montagne russe dell’emozione e del fato, piegando il tempo e lo spazio, in cerca di quel godimento giocoso e sensuale che è la cifra ultima del film.
E che rimane, intatto, a trent’anni di distanza.

