Venezia 2024. Youth – Homecoming

Youth – Homecoming **1/2

La terza parte del trittico di Wang Bing sui giovani che lavorano nella provincia di Anhui, nel grande distretto tessile cinese vicio a Shanghai, attraversato dallo Yangtze, Youth – Homecoming, ricomincia esattamente là dove finivano i precedenti, ovvero nelle fabbriche lager di queste città fantasma del fast fashion. Il primo capitolo Spring si è visto a Cannes 2023, il secondo Hard Times a Locarno poche settimane fa.

Si avvicina la fine dell’anno, gli accordi presi con i giovanissimi lavoratori vanno rinegoziati – anche se qualcuno attende ancora di essere pagato da sei mesi – e nel frattempo i giovani si giocano quei pochi spiccioli a carte nell’attesa di rivedere la propria famiglia d’origine.

Ma tornare a casa, abbandonando le strade fantasma, le camerette umide e degradate in cui sono costretti a vivere, non è cosa semplice. Per raggiungere il piccolo villaggio una coppia deve affrontare un lungo viaggio prima in treno, ammassati per terra e nei corridoi dei vagoni e poi su un piccolo van che si inerpica su una strada sterrata e innevata a doppio senso per un’unica carreggiata che costeggia un dirupo ripidissimo. E’ una strada che gli stessi abitanti della zona hanno faticosamente strappato alla natura, contribuendo ciascuno per la sua parte.

A casa i due giovani trovano un padre malato di tubercolosi, che ha bisogno dell’aiuto che i figli non sono in grado di dargli: nel frattempo si cucina assieme, si consuma in modo solitario e frugale la cena, si vive un tempo sospeso, lontanissimo dalla velocità e dalla frenesia del distretto tessile, in cui le macchine da cucire non si fermano mai.

Girato da Wang Bing nel corso di cinque anni tra il 2014 e il 2019 a Zhili e nella provincia, il trittico di Youth è un viaggio in una gioventù umiliata e offesa, che vive una condizione impossibile senza mai un rimpianto, ma con quella positività che associamo naturalmente all’età.

Non c’è alcuna intimità possibile, gli spazi sono necessariamente condivisi, ma resta una solidarietà tra ultimi, un’umanità malinconica di chi sa che dovrà vivere le sue giornate un passo alla volta, una settimana dopo l’altra, senza alcuna certezza di tornare al proprio lavoro precario.

Wang Bing segue con la sua macchina da presa un pugno di personaggi, testimone delle loro storie, delle loro confessioni, senza mai cercare di ricostruire drammaticamente il materiale raccolto nei lunghi anni di riprese. E’ la realtà stessa che si impone, che il montaggio alternato consente di ordinare secondo un principio orizzontale in cui ogni personaggio ha la propria dignità e la propria centralità nel racconto.

A orientarci in questo caleidoscopio di esperienze umane ci sono semplici didascalie color turchino, che ci ricordano i nomi, l’età, i luoghi.

Wang continua a fare un cinema di testimonianza del reale, rigorosissimo e senza filtri.

Come scrivevamo l’anno scorso dopo aver visto la prima parte di questo lungo trittico di Youth è il racconto di un “capitalismo feroce riscopre pratiche ottocentesche, ruba il tempo e la vita, si appropria di tutto, persino dei sogni e dei desideri della classe operaia costretta a vivere in una sorta di falansterio da cui non si può uscire. L’economia è minima, le paghe in contanti: mazzette di yen rossi che servono forse solo per tornare a casa, dalla moglie o dai figli abbandonati lontano”.

Homecoming è anche un film sul fallimento, se non di un intero modello – difficile che possa accadere nel breve periodo – di una singola attività, in un’economia che sembra retta da istinti predatori o forse più semplicemente criminali.

Eppure, nonostante tutto, la vita, misteriosamente, continua…

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